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Riprendo un articolo di Alessandro Girola per parlare di un altro male che affligge il nostro paese il neo-luddismo italico. 

Siamo il paese dove la diffusione dei cellulari e smartphone assume percentuali imbarazzanti, dove si riesce a vendere un iPhone ai prezzi più alti del pianeta eppure ogni tanto si sente dire, dall’alto del concentrato di tecnologia che ognuno si porta in tasca: – eh, si stava meglio quando si stava peggio – ricordando la nostalgia di quei pomeriggi passati in strada a giocare a pallone dopo aver fatto i compiti.  – Da quando c’è internet i ragazzi non si relazionano più fra loro, diventano asociali e passano tutto il tempo con la testa dentro al monitor – che poi è la stessa cosa, aggiornata agli anni ’10 del ventunesimo secolo, che dicevano negli anni ’80 del ventesimo riguardo la televisione. – Eh, questi ragazzi, invece di giocare stanno tutto il tempo li a scimunire dietro ai cartoni animati giapponesi

Beh io che ero asociale, nel senso che non ho mai socializzato con i cretini, negli anni ’80-’90, quando ancora non c’era internet, prendevo la bici e me ne andavo in campagna a leggere un libro ma passavo anche i pomeriggi a guardare la TV e a cazzeggiare al computer e, francamente, se vedo mio figlio che dopo aver giocato al parco decide di buttarsi su un prato a giocare col Nintendo non mi scandalizzo più di tanto.

Potrei scrivere un trattato sul perché il progresso è meglio di un calcio nelle palle ma è inutile approfondire più di tanto la questione quando c’è gente che si porta addosso la tecnologia risultato di anni di ricerca spaziale e mi viene a dire, con quella certezza che non può che essere figlia dell’ignoranza, che l’uomo non è mai andato sulla Luna.

Preferisco quindi pensare a quelle che sono le rivoluzioni tecnologiche che hanno cambiato la mia vita e quella del’umanità negli ultimi venti anni (il personal computer, il telefono cellulare, lo smartphone, la fotocamera digitale, il navigatore satellitare, il climatizzatore, il tablet, gli e-reader…) e poi rimangiarmi tutto quello che ho detto! (beh quasi, dai…)

Eh sì, perché non sempre la tecnologia ti aiuta davvero. Nel 1971 la Gillette brevettò il primo rasoio bilama usa e getta, che poi sono diventate, tre, quattro fino a raggiungere  le sei lame accompagante dalle necessarie strisce idratanti per poter far scorrere il rasoio, dei recenti aggeggi venduti nei centri commerciali. Ogni nuovo modello di rasoio sembra sempre migliore rispetto al precedente, anche quando lo provi, eppure… sarà che io sono pigro e la barba la faccio ogni settimana, quando va bene, sarà che ho una barba molto folta, ma con l’ultimo modello di rasoio che ho comprato, per farmi la barba, ci sono volute due testine da 2 euro l’una, facevo prima e meglio ad andare dal barbiere :-)

Così ho deciso di tornare all’antico e mi sono comprato un rasoio di sicurezza, quello brevettato dalla Gillette verso la fine del 1800,  con le lame usa e getta in acciaio inox e… miracolo riesco a farmi la barba perfettamente in minor tempo e con una spesa effettiva di 5 centesimi! Già da tempo avevo abbandonato la schiuma da barba in bomboletta che più che idratare mi sporcava la camicia in favore del vecchio sapone da barba e pennello… beh ora posso davvero dire un altro mondo.

Non parliamo, poi, dei rasoi elettrici… che è meglio!

 

Prendo spunto da questo

L’appel des 451 pour agir et sauver l’édition. Nous, le collectif des 451 professionnels de la chaîne des métiers du livre, avons commencé à nous réunir depuis quelque temps pour discuter de la situation présente et à venir de nos activités.

un appello lanciato su Le Monde da 451 professionisti della filiera editoriale, tradotto e riproposto da Repubblica per parlare di quella che si preannuncia una diatriba che a breve esploderà in maniera dirompente anche nel nostro paese; le prime avvisaglie si sono avute quest’estate con gli articoli della scrittrice Margherita Loy che ci fa sapere prima che «Non cederò mai all’e-book» e che poi si chiede se con l’«E-book, il futuro sarà snob e discriminante?» dandosi anche la risposta.

E-book VS cartaceo

Ora, parteggiare per il digitale o per il profumo della carta è francamente poco appassionante, l’evoluzione non si può fermare … al massimo la puoi prendere a colpi di clava per vedere se rallenta (cit.). Del resto anche Gutenberg quando introdusse la stampa a caratteri mobili a metà del  1400 ebbe i suoi problemi e le motivazioni oggi come allora sono sempre le stesse: soldi.

E’ inutile starci a girare intorno o fare le pulci alle inesattezze e all’ignoranza dei detrattori degli e-book; se io fossi uno scrittore affermato [1] la diffusione di strumenti di lettura pratici ed economici come i reader e-ink mi darebbe molto fastidio per almeno due motivi:

– mi sono fatto il culo (ovvero ho avuto il culo) di essere pubblicato da grossacasaeditricechemonopolizzailmercato e adesso vedo il mio piccolo orticello invaso da chi pretende di autopubblicare il proprio lavoro facendosi pagare € 0,99 su Amazon

– il mio capolavoro della letteratura può essere copiato con un paio di click, qualche click in più se ci metto DRM o altre diavolerie anti-copia che però mi rendono antipatico ai fans/lettori

Dal punto di vista della filiera editoriale, ovviamente, il problema è maggiormente sentito perché se é vero solo in parte quello che dice l’amministratore delegato di Amazon, Jeff Bezos, e cioè che «oggi le uniche persone indispensabili nel mondo dell’editoria sono il lettore e lo scrittore» è anche vero che nei posti dove gli e-book hanno superato il 50% del mercato editoriale le ripercussioni sulla filiera (case editrici, tipografie, librerie…) cominciano ad essere pesanti; un comunicato dal sapore squisitamente sindacale e tipicamente francese, come l‘appello dei 451 in cui si pone un problema ma non si offre alcuna soluzione che non sia esclusivamente programmatica «creando cooperative e centrali di acquisto, unendoci per ottenere condizioni salariali migliori, o ancora inventando luoghi e pratiche più adatti alla nostra visione del mondo e alla società in cui desideriamo vivere» tuttavia non serve a nulla se non ad alimentare polemiche.

Fra l’altro in questo tipo di invettive c’è sempre lo stesso errore di fondo che è quello di cercare di ottenere l’appoggio del lettore con ammiccamenti romantici («ah il profumo della carta») o facendo trapelare la velata  minaccia di un futuro infausto dovuto ad un falso progresso («gli e-reader sono costosi e c’è il rischio dei continui upgrade hardware» oppure «il valore di un libro diventa legato alle cifre di vendita e non al contenuto»). In realtà dalla diffusione dell’editoria digitale  il lettore ha tutto da guadagnare, non solo per una riduzione inevitabile dei prezzi di copertina, ma sopratutto perché, a dispetto di quello che affermano i talebani  della carta affetti da conflitto di interesse, gli e-book offrono al lettore[2] la possibilità di accedere a contenuti di autori indipendenti che mai saranno pubblicati da grossacasaeditricechemonopolizzailmercato. Certo il rischio di ritrovarsi sull’e-reader delle vaccate immonde è decisamente alto, ma alta è anche la possibilità di incontrare delle vere perle che mai avrebbero visti gli scaffali di una grossalibreriachemonopolizzailmercato.

Per chiudere, personalmente, ritengo che il progresso sia inarrestabile e che, come sempre, nelle fasi di cambiamento c’è chi saprà approfittare delle occasioni, cavalcandone l’onda, e chi soccomberà dopo averle tentate tutte per mantenere lo status quo. Un esempio per tutti le case editrici di libri scolastici:  nonostante, per legge, debbano fornire i contenuti anche in formato elettronico, si comportano in modo da ostacolare la diffusione del materiale non cartaceo mediante la vendita di contenuti misti(purtroppo previsti dalla normativa) o di contenuti digitali in formati improponibili, allo stesso prezzo o quasi del caro, vecchio librone da mettere in cartella. Questo è il tipo di resistenza che spazzerà definitivamente dal mercato i libri di testo sostituiti, per esempio, dagli e-book gratuiti degli stessi professori (cosa che mi è capitato di assistere proprio in questi giorni per la prima classe di un liceo classico) o, addirittura, pubblicati e distribuiti dalla stessa scuola.

Ringrazio Lucia Patrizi per la segnalazione dell’articolo di Le Monde

[1] essere uno scrittore affermato, in italia, non c’entra con il saper scrivere ma solo con avere la capacità o la fortuna di proporre il tema giusto al momento giusto o di conoscere qualcuno importante in grossacasaeditricechemonopolizzailmercato.

[2] per lettore non intendo colui che compra “50 sfumature di qualcosa” da leggere sotto l’ombrellone, ma immagino una persona curiosa, in grado di farsi delle domande e di distinguere un buon lavoro da lammerda(TM)

Inizialmente avevo intenzione di parlare del’ultimo  film della trilogia del Batman di Christofer Nolan, poi mi sono reso conto che non solo arrivo ben ultimo ma che non sarei stato particolarmente originale non potendo  aggiungere alcunché  a quanto è già stato detto su Dark Knight Rises.  A voler proprio esprimere un’opinione il Ritorno del Cavaliere Oscuro è un film molto buono, forse un po lento in alcune parti e con qualche buco di sceneggiatura ma per certi aspetti potrebbe essere considerato il migliore della trilogia ciò, ovviamente, se i tre film potessero essere giudicati singolarmente e non come un’unica opera.

 

Quello che  invece farò, è parlare di Bane, il cattivone del film, quello che <spoiler> quasi spezza la schiena a Batman </spoiler>.

 

Quando sono uscito dal cinema la prima impressione su Bane è stata quella di aver visto il villain più ridicolo della storia dei fumetti al cinema. In verità la mia opinione su questo non è granché cambiata   a distanza di una settimana; la maschera con i tubicini che gli conferisce quell’aria da Dart Fener del Wrestling professionistico e la sua uscita di scena degna di Brutus in qualunque striscia di Popeye non rendono certamente onore al super cattivo che, nella saga Knightfall degli anni ’90, spedì Batman sulla sedia a rotelle; tuttavia, per tutta la settimana,  non ho potuto fare a meno di pensare al suo ruolo nella narrazione di quello che non è un film di supereroi come tutti gli altri.

 

Il vero protagonista della pellicola, infatti, non è Batman e non è certo il piccolo Bane; il reale protagonista del film è  la città di Gotham, la sua gente, la società. Eliminato Batman, Gotham City diventa terra di nessuno, diventa una città morta dove Bane e i suoi uomini promettono la libertà dell’anarchia mentre spadroneggiano sulle spoglie della città trucidando i dissidenti e i membri di quella che, con un termine in voga nell’italietta di oggi, si definisce casta. Gli abitanti di Gotham non sembrano particolarmente infastiditi dall’ingombrante presenza di Bane, anzi i più scaltri si uniscono a lui mentre gli altri sembrano rassegnati se non contenti di rinunciare alla libertà in cambio di una sorta di rivalsa nei confronti dei politici corrotti e dei faccendieri che avrebbero affamato il popolo, una rivalsa che ha il  sapore di una riscossa nei confronti di quel capitalismo  selvaggio che mette sempre in secondo piano l‘uomo; non a caso la falsa rivoluzione anarchica di Bane comincia dalla borsa di Gotham/New York.

 

Importa poco che il fine ultimo di Bane sia quello di radere al suolo la città con un ordigno nucleare, quel che conta realmente è che Bane è riuscito nell’intento di dare alla gente una speranza e, nonostante i pochi margini di manovra concessi dalla dittatura anarchica, la gente è riuscita dimostrare inequivocabilmente di essere morta dentro e di meritare davvero l’olocausto che gli si prospetta. Il film riesce a mostrare la parte peggiore dell’umanità a mettere in luce la debolezza che si cela nell’invidia sociale che si traduce in un falso tribunale del popolo dove l’ignorante diviene burocrate per fingere di amministrare un potere che non gli è mai stato realmente conferito.

 

Anche i dissidenti, i partigiani di questa invasione farzesca, non hanno reali argomentazioni contro Bane e contro il nuovo status-quo; a parte Gordon, che ha dalla sua la conoscenza, gli altri combattono per un ideale generico di libertà, una libertà che, a conti fatti, non avevano nemmeno prima, che non hanno mai avuto. Questo è il motivo per il quale i partigiani del film non sono mai realmente pericolosi per i piani di Bane e diventano un simbolo solo quando vengono impiccati mostrando al mondo intero, non solo a Gotham City, che non c’è più speranza.

 

Nemmeno il ritorno di Batman e il suo estremo (si fa per dire) sacrificio, porta ad una vera redenzione, il male continua ad aleggiare sulla città che nonostante le ferite, nonostante sia stata privata della casta è pronta a ricominciare come prima, è pronta ad accogliere un nuovo giustiziere mascherato che l’aiuti a smacchiarsi la coscienza più nera di un pipistrello nella notte.

 

Io non so se  Nolan volesse realmente dire tutte queste cose, probabilmente no, quel che è certo è che io non ho potuto non ritrovare una profonda similitudine fra la realtà immaginaria di una Gotham City corrotta da redimere e  quella forse meno immaginaria ma altrettanto stereotipata della nostra società. Una società dove eliminato un Jocker sono tutti pronti a seguire un pagliaccio, diverso nell’aspetto forse, ma non nel modo di parlare allo stomaco della gente e  ad alimentare i sentimenti peggiori delle persone cavalcandone l’invidia sociale e concedendo loro di vedere la luce da uno spiraglio di libertà che non gli sarà mai concessa.

 

Rileggendo tutto mi sono reso conto di aver parlato del film più di quanto avrei voluto contraddicendo l’inizio del post, ma ormai è fatta…

Settembre, il mondo artificiale vacanziero si infrange contro l’adamantina realtà: la vita quotidiana torna con tutti i suoi fastidi e le noiose sofferenze, la crisi torna prepotente a terrorizzare le notti dell’umanità, il modello standard risorge implacabile dal suo momentaneo oblio per tornare a nutrirsi delle anime dei suoi adepti.

La verità amara è che nessuno di noi può sfuggire a questo triste fato, ma ciò non vuol dire che almeno non ci si possa provare.

Ma andiamo con ordine, questo post prende spunto, da alcune discussioni fatte qualche giorno fa con alcuni amici e si concentra sulla definizione di Modello Standard su cui si basano le nostre vite elaborata da Davide Mana.

. da quando sei in grado di parlare, ti viene detto di tacere e ascoltare
. devi studiare
. se vuoi puoi “toglierti la soddisfazione” di prenderti una laurea, tanto non ti servirà
. poi ti trovi un lavoro onesto
. e ti fai una famiglia
. poi lavori per i quattro decenni successivi per guadagnarti una vita che spendi lavorando
. poi arrivi alla pensione, e te la godi
. poi muori
. ai tuoi figli tocca lo stesso destino… e così per l’eternità. Sarà bellissimo.

Il modello standard, quello che è stato propugnato con poche variazioni, a tutti noi dai nostri genitori e dalla società, in realtà non è immutabile ma cambia di generazione in generazione, solo che è sempre un passo indietro rispetto alla realtà e mentre tutti noi consciamente o meno cerchiamo di tendere ad esso, il bastardo muta e ci fotte. Ogni modello standard, infatti contiene in sé una promessa di felicità, vivi una vita di merda e ci sarà per te un tempo in cui potrai goderne i benefici, una promessa che, nel modello attuale, sappiamo non potrà essere mantenuta, non in questi termini almeno, ma che nonostante tutto ci induce a proseguire verso la strada dell’autodistruzione.

Perché?

Perché il modello standard è una convenzione sociale accettata e propugnata iterativamente e l’uomo è un animale sociale. Prendi la strada giusta e non sgarrare, se no poi te ne facciamo pentire (cit.) perché se qualcuno prova a uscire dal modello standard, se si prova a dire:

– no, io non mi accontento del lavoro di merda sottopagato nella fabbrichetta che si regge sul nero –

la società lo rimette subito in riga prima redarguendolo e poi emarginandolo, costringendolo a tornare sui corretti binari, fino a riportarlo nella massa di pecoroni belanti che in fila per tre marciano verso il baratro.

Eppure dovremmo tutti renderci conto che le cose sono cambiate, che questo modello standard, ammesso che sia realmente il paese dei balocchi che ci hanno prospettato, non è più perseguibile perché il mondo cambia in fretta e c’è la crisi, sì c’è la crisi di un modello economico-sociale che ha fatto il suo tempo; qualunque cambiamento corrisponde ad una crisi, alla crisi proprio del modello standard che  implodendo in se stesso lascia per strada i cadaveri di coloro che, irretiti dalle sue promesse di felicità, in esso hanno investito la propria vita, e genera gli zombie di quelli che nel modello ci credono ancora.

Non c’è una via di uscita facile dalle crisi che purtroppo non sono economiche ma di sistema e che possono solo essere cavalcate e in alcun modo contrastate, l’unica cosa giusta da fare è accettare il cambiamento e dice bene Alex Girola, parlando di lavoro, quando afferma

In un’epoca di grandi cambiamenti è auspicabile cercare di sfruttare al meglio le proprie risorse. Se abbiamo dei talenti è ora di sfruttarli. Se possediamo delle capacità che possono essere vendute, coniugando piacere e lavoro, è il momento di tentare questa strada.

Ma distaccarsi dal modello standard equivale a combattere prima contro un condizionamento interno e poi contro una società, per forza di cose conservatrice per preservare se stessa; non è una cosa facile e il più delle volte ti ritrovi di fronte a quello che ti fa capire che  “per guadagnare soldi devi fare qualcosa che odi, spezzarti la schiena e arrivare a sera possibilmente stravolto di fatica e sudato. Rigorosamente dalle 9.00 alle 17.00, altrimenti non è lavoro” (cit.).

Quasi che non fosse giusto cercare un lavoro appagante, un lavoro in cui ci si diverte, come se fosse sbagliato cercare di vivere intensamente le proprie passioni e di essere felici adesso e non, forse, poco prima di morire.

Io sono stato fortunato, ho cominciato a lavorare immediatamente dopo la laurea, a due passi da casa, facevo il programmatore, pagato non malaccio per gli standard meridionali; scrivere software è una cosa che mi è sempre riuscita dannatamente bene ma è anche un lavoro alienante, a tal punto che dopo nemmeno un anno mi sono rotto i coglioni e ho cominciato a cercare altro. La cosa divertente è che sono rimasto nel modello standard, non ho detto: Mollo tutto! E faccio solo quello che mi pare , ma ho semplicemente cercato di meglio e alla fine ho trovato rimanendo ancora nel modello standard, un lavoro migliore, pagato molto meglio e che mi consente entro dei limiti abbastanza  ampi di essere creativo. Nonostante tutto sono stato biasimato  dalla famiglia e dalla società  perché chi lascia la via vecchia per la nuova… 

Il vero problema del modello standard, però, non sono i vecchi che avrebbero tutte le ragioni di mantenere inalterato lo status quo, bensì i giovani, coloro a cui il futuro è stato negato che non solo non riescono a rinnegare il modello ma nemmeno ad accettare che il mondo possa funzionare (e che per millenni l’abbia fatto) in maniera diversa. Piccoli arrivisti disposti a calpestare prima se stessi, i propri sogni e le proprie passioni e poi gli altri pur di ricavarsi una piccola nicchia in cui prosperare, anche se, in realtà, nel sarcofago che si sono creati all’interno del modello standard c’è spazio a mala pena per la sopravvivenza; esseri insignificanti disposti a truffare, mentire e svendere se stessi per un i-Phone e un piatto di lenticchie, persone per le quali l’unica cosa importante sono i soldi e non come te li sei procurati.

Io, l’ho già detto, sono dentro al modello standard, sono stato condizionato a ricercarlo e ne sono consapevole, ci sono dei giorni in cui rimpiango di aver fatto certe scelte,  giorni in cui provo, in un certo senso, invidia per chi ha perseguito strade diverse, in certi casi più impervie, ma ci sono giorni, invece, in cui mi ricordo di essere fortunato, perché in realtà le mie scelte sono state consapevoli e non del tutto lontane dalle mie passioni e dai miei desideri ma sopratutto perché posso condividere sogni, emozioni e desideri con la mia compagna a cui, oltre tutto, mi legano simili apirazioni e identici punti di vista.

Ora, vi prego, tornate alla vostra crisi, tornate al governo ladro e alle tasse ingiuste, ricominciate pure a piangervi addosso perché voi siete le vittime mentre il carnefice è sempre qualcun altro.

Questa mattina alle 5.14 UTC (7.14 ora italiana) il Mars Science Labotratory “Curiosity” è atterrato su Marte, nel cratere Gale, pronto per compiere la sua missione di investigazione della superficie marziana alla ricerca di forme di vita passate o presenti.

Il rover Curiosity è un veicolo lungo tre metri e pesante circa 900kg in grado di muoversi sul pianeta rosso in perfetta autonomia, grazie anche ad un generatore termoelettrico a radioisotopi (sì un motore nucleare), alla velocità massima di 90 metri al secondo, trasportando ben 80 kg di strumenti scientifici.

Vista la distanza da Marte, Curiosity, non poteva essere telecomandato dal centro di controllo e questo ha causato notevoli problemi anche in fase di ingresso nell’atmosfera marziana. Curiosity, infatti, è decisamente più pesante di qualsiasi cosa sia mai stata mandata in giro per Marte; dunque è stato studiato un sistema di atterraggio molto complesso che ha previsto l’utilizzo di uno scudo termico per rallentare la velocità, di paracadute e di un vero e proprio modulo di atterraggio.

La fase di atterraggio sul suolo marziano, effettivamente, è stata la parte più delicata della missione, fino ad ora,  proprio perché totalmente affidata all’intelligenza della sonda e senza alcun intervento dalla Terra. La NASA, tuttavia, ha saputo sfruttare questa storia dell’atterraggio difficile riuscendo a generare un hype per questa missione come non di vedeva da tanto, troppo tempo, si sono persino dati a Twitter per far parlare la sonda di se con gli “internauti”.

Ovviamente come per tutti i grandi traguardi che l’Uomo riesce a raggiungere ci sono sempre i disfattisti (ai quali voglio rivolgermi), quelli che:

eh, con due miliardi di euro(tanto si ipotizza il costo complessivo della missione Curiosity) si potevano aiutare tante famiglie colpite da questa profonda crisi.

Stolti(stolto è un modo più politically correct per dare a qualcuno del coglione), questi ragionamenti idioti hanno contribuito a generarla la vostra ridicola crisi.

Non cercherò di spiegarvi che i due miliardi di euro, che sono comunque una cifra ridicola considerando il genere di missione, sono un investimento; un investimento in ricerca scientifica e tecnologica, quella stessa che vi permette di andare in giro con quel cazzo di cellulare marchiato con la mela, o pensate forse che Steve Jobs abbia avuto i progetti dal Capitano Kirk in vacanca a San Francisco nel 1986?

Voglio invece soffermarmi su una cosa che capirete ancora meno: rispetto all’umanità la vostra singola esistenza (sì anche la mia) non conta un cazzo. L’Uomo nella sua accezione più magnifica è riuscito in poche centinaia di anni ad abbandonare le grotte, in cui si rifugiava per timore dei predatori, e a raggiungere la vetta della catena alimentare, fino alle stelle. Un simile risultato è dovuto esclusivamente alla curiosità e al “sense of wonder“(inteso nello stesso modo di quello indotto da un’opera letteraria fantascientifica) nei confronti della scoperta, quel senso di meraviglia di fronte al quale due miliardi di euro per vedere la prima immagine del rover appena atterrato su Marte, dopo un viaggio di otto mesi e dopo aver percorso 560 milioni di chilometri per attraversare mezzo sistema solare, SONO SOLDI SPESI BENE.

Sì lo so che non capite di cosa parlo, infatti siete parte del problema e come tali… beh andreste estirpati.