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Le parole sono importanti, le parole si possono scrivere e si possono pronunciare, le parole possono essere affilate come pugnali, morbide e dolci come Nutella, diaboliche e infide come un politico della “prima repubblica”. Non bisogna avere paura delle parole; bisogna imparare a conoscerle, ad usarle,  conoscere le parole fa la differenza fra chi rientra nel pensiero mainstream e chi ne sta fuori solo perché il proprio pensiero non è in grado di esprimerlo, per poter essere liberi bisogna conoscere le parole.

Una parola può voler dire tante cose anche a seconda del tono in cui viene pronunciata, anche nel modo in cui viene scritta, basta una virgola, la scelta della posizione nella frase a cambiare del tutto il contenuto informativo della comunicazione pur lasciandone identico il significato.

La gente, in generale ha paura delle parole; paura dovuta al rispetto per chi le parole le conosce e paura dovuta al timore di non sapere come usarle. Da queste paure nascono le storpiature, le K messe alla kazzo di kane, le abbreviazioni da Short Message Service (SMS), i beep e gli asterischi a coprirne le vergogne come  una foglia di fico aggiunte ad un quadro rinascimentale o un perizoma per coprire il culo di una bella donna.

Quando si ha  paura delle parole, poi, si comincia a girarci intorno e nascono locuzioni ridicole come “uomo di colore”  per indicare un negro, come se negro fosse dispregiativo o “uomo di colore” avesse un significato o ancora “diversamente abile” per indicare un handicappato.Sulle locuzioni negative utilizzate dai “diversamente intelligenti” per fare affermazioni rimanendo nel politicamente corretto ci sarebbe, in realtà, da scrivere un trattato.

E’ interessante, tuttavia, osservare che lo stesso utilizzo improprio delle parole ha di per sé un significato. Questa considerazione, in particolare, nasce da una delle tante puttanate che girano su Facebook: la foto di un bel bimbo negro che fa il bagnetto e  una frase “questa è da 3 ore che mi strofina…ma l’avrà capito che sono un bimbo di colore“, frase che nelle intenzioni dovrebbe essere contro ogni forma di razzismo ma che denota un’atteggiamento discriminatorio così radicato da farmi accapponare la pelle molto più violentemente che se si fosse trattato di un video con le simpatiche gesta del Ku  Klux Klan.

Sulle parole Francesco Guccini ha scritto, una decina di anni fa, uno dei suoi pezzi più belli:

The Icecreamist, una gelateria  di Londra, a Covent Garden, ha messo sul mercato una nuovo gusto di gelato, il fiordilatte Baby Gaga.

Il gelato, che viene servito in un bicchiere da cocktail, da una cameriera vestita come Lady Gaga, costa ben 23 sterline a porzione ma è un prodotto completamente bio,  fatto con vaniglia del Madagascar, scorzette di limone e… latte materno.

La geniale idea è di Matt O’Conner, il proprietario della gelateria, che a raccontato alla BBC del suo nuovo locale e dei suoi nuovi gusti di gelato.  O’Conner a metà febbraio ha messo su un forum on-line un annuncio per la ricerca di neomamme, in buona salute, da selezionare per ottenere la “materia prima”.  Quindici donne hanno risposto all’annuncio e ognuna di loro è stata pagata con circa 17 euro per 30 cl di “latte versato” per la causa.

Che dire, riprendendo l’intervista di O’Conner, se va bene per i bambini è buono anche per gli adulti e come giustamente dice Victoria Hiley, la donna dal cui latte sono stati prodotti i primi 50 gelati, in un’intervista al Daily Mail… che male c’è a vendere il proprio latte per tirar su un po’ di quattrini :-)

A:-Buongiorno ingegnere avrei bisogno di alcune informazioni sul prodotto che state avviando per noi
PM:Certo mi dica pure…
A:Allora vorrei sapere come funziona, questo, questo e quest’altro e sopratutto avrei necessità di fare questa importazione di dati (dove i questo/a sono le feature base del prodotto)
PM:Ehm…ma…sì…no…senta il sono il Project Manager di salcazzo per i dettagli tecnici bisogna parlare coi tecnici
A:-Dettagli tecnici? Vabbè faccio finta di non aver capito, mi fa parlare con un tecnico?
PM:-No, io sono il PM di salcazzo le faccio sapere…click
A:-Mmmh interessante

…il giorno dopo…

PM:-Buongiorno dottore, le posso dare le risposte che mi ha chiesto
…e giù a sciorinare cazzate…

A:-Mi passi un tecnico
PM:Ehm veramente…
A:Ingegnere, mi pas….
PM:Sì, subito, le passo l’ing. Tecnico
T:Buongiorno, dottore
A:Buongiorno ingegnere avrei bisogno di alcune informazioni sul prodotto che state avviando per noi
T:certo, mi dica pure…
A:Allora vorrei sapere come funziona, questo, questo e quest’altro e sopratutto avrei necessità di fare questa importazione di dati (dove i questo/a sono le feature base del prodotto)
T:Allora funziona così, no non così, sì, no, non so, forse, insomma lo importiamo dalla Cina, si questa parte è giapponese, ah no questo lo fanno i colleghi nel New Hempshire… sì insomma le faccio sapere
A:-Mi passa PM
PM:-Mi dica dottore
A:Ma almeno le vostre brochure di presentazione le avete lette?
PM:Sì, no, forse, le stampano nella sede di Dublino…
A:click

Quello di sopra può essere considerato il condensato di decine di situazioni simili che mi convincono sempre più che il presidente del consiglio sia solo un sintomo del malessere di questo paese…

Da cosa nascono queste situazioni:

Il primo problema è l’Università, quando mi trovo in simili circostanze  sono sempre alle prese con ragazzi sui 30anni laureatisi con la maledetta riforma Berlinguer e che non hanno la minima capacità di astrazione del problema. Io non faccio mai domande complicate chiedo solo conferme di ciò che ho capito sul come dovrebbe funzionare una cosa e quando chiedo se una cosa si può fare è una domanda pleonastica, è chiaro che si può fare, ti sto chiedendo di farlo, puoi rispondermi che non vuoi, non che non puoi. In questo senso sono mille volte meglio i tecnici diplomati all’ITIS.

Il secondo problema è uno dei tanti malesseri italiani: qui non esistono realmente tecnici. Ma non per le cazzate che vanno dicendo in giro, che ci sarebbero troppe facoltà fuffa(quelle ci sono ma generalmente sono nelle Università private), ma perché si è diffuso il concetto per il quale una persona dopo aver studiato da tecnico per 10 anni tutto d’un tratto si accorge che non vuole essere tecnico ma vuole diventare il PM di salcazzo con la giacchetta e l’iPhone e riempire tabelline in Excel. E per carità, lui ha una formazione polivalente che gli permette di conoscere a fondo il dominio applicativo. Dopo di che ingoia un vocabolario fatto di termini impropriamente importati dal mondo anglosassone e, dopo tre anni passato a fare lo schiavo, diventa PM, convinto di aver fatto una progressione di carriera e comincia a bullarsi coi parenti . Questo problema però ha radici che affondano nella realtà produttiva italiana. Un tempo c’era il lavoro “di fatica” e il lavoro “di concetto”; oggi il lavoro “di fatica” non lo fanno più gli italiani che si sporcano le mani e rimane il lavoro “di concetto” che subisce a sua volta una divisione fra chi le cose le deve fare e chi ha il compito di progettare, dirigere e analizzare i problemi. Le due cose un tempo erano su un piano di parità, sopratutto economica, oggi il lavoro del tecnico viene visto come quello del muratore e allo stesso modo considerato e retribuito. Così i tecnici che non ne hanno la formazione aspirano a diventare PM di salcazzo mandando tutto a puttane.

In tutto ciò chi ci rimette è l’italia. Chi mai, italiano o straniero, investirebbe in un paese in questa situazione? Io non lo farei e non perché abbiamo al governo satana come fa comodo pensare, col diavolo si possono sempre stringere dei patti ma perché qui manca tutto dalle infrastrutture al personale e si continua a perseverare nei soliti maledetti errori. Un imprenditore(*) piuttosto che assumere un laureato col 3+2, oggi preferisce assumere un diplomato con esperienza e se proprio deve assumere un laureato lo fa solo se disposto a essere pagato meno della segretaria e questo perché l’imprenditore sa che nella migliore delle ipotesi lo deve formare e che nella peggiore, dall’alto della spocchia data dal pezzo di carta, dopo qualche mese diventerà un rompicoglioni oltre che una spina nel fianco.

(*) per imprenditore intendo un uomo capace di assumersi il rischio d’impresa, non parlo quindi delle piccole e medie aziende italiane dove l’imprenditore è solo uno che ha messo su un caravanserraglio sfruttando fondi statali, agevolazioni e sopratutto sfruttando il lavoratore per produrre fuffa DOC, ma questa è un’altra storia, un altro problema di questo paese.

E’ la seconda volta che parlo di Sanremo questa volta per annunciarne il vincitore: Roberto Vecchioni. Sì lo so che arrivo buon ultimo a fornire questa rivelazione, l’han detto persino prima che vincesse, ma voglio parlarne perché Vecchioni che vince Sanremo con quella canzone mi ha personalmente messo tristezza. Chiariamo, io non sono del partito che il cantautore impegnato non possa cimentarsi in una manifestazione nazional-popolare, al contrario ritengo giusto mettere in gioco idee e ideali dandole in pasto a casalinghe e pensionati pur mantenendo sempre un certo snobismo intellettuale. Roberto Vecchioni è stato uno degli autori della mia adolescenza, uno di quelli che mi ha accompagnato per buona parte della mia vita; Vecchioni era il professore che avrei voluto avere a scuola. E’ vero anche che da almeno dieci anni, da “Sogna ragazzo sogna” la sua produzione musicale aveva perso gran parte della sua forza, sopratutto ideologica, e questa canzone, “Chiamami ancora amore”, rientra  nello stesso filone. “Chiamami ancora amore” non è un brutto pezzo, ma non risveglia in me nessuna emozione, in più è troppo accondiscendente, cosa che Vecchioni non è mai stato, verso una certa categoria di persone, quelle di cui parlo, per esempio,  qui e qui a cui Vecchioni toglie qualunque responsabilità per la situazione in cui versano rigettandola integralmente su una società matrigna. Questo pezzo, la stessa vittoria di Vecchioni a Sanremo è il sigillo apposto definitivamente su qualunque possibilità di cambiamento in questo paese, segna la fine di qualunque rivoluzione sociale e culturale che ci permetta di superare questo momento di telecrazia imperante perché finisce per omologare la protesta come funzionale al sistema rendendola di fatto parte di essa; in un certo senso questa canzone è il proseguimento della protesta fatta coi girotondi di qualche anno fa.

Ad ogni modo, visto che ho anche pagato il canone, quest’anno ci ho provato a vedere Sanremo, anche perché oltre a Vecchioni c’erano un paio di autori interessanti, ma non ce l’ho fatta proprio. La trasmissione era francamente inguardabile, i comici non facevano ridere, i presentatori non sapevano presentare e lo stesso momento “alto” con Benigni è stato più noioso del messaggio di fine anno di Napolitano, che almeno è più breve.

Ricordando Vecchioni:

In italia si continua a perseverare in quell’atteggiamento autoindulgente che contraddistingue da secoli i popoli della penisola. Uno dei tanti esempi è la leggenda, nota solo all’italico popolo, che vorrebbe l’università italiana fra le migliori al mondo, con i laureati contesi dalle multinazionali e dalle università dell’intero pianeta. La verità ovviamente è molto lontana da quello che ci piacerebbe credere. In particolare, con la riforma del 2000 voluta dall’allora ministro Berlinguer che istituiva il 3+2, si è decretata la morte dell’università italiana in favore della creazione di frotte di caproni laureati buoni solo a svalutare il titolo di dottore e destinati a rimanere disoccupati o, peggio, sottooccupati.

In se l’idea di trasformare la vecchia università di 4-5 anni in un sistema più anglosassone con bechelor + master + dottorato non era poi così peregrina vista la difficoltà di equiparare i vecchi titoli con gli omologhi degli altri paesi; il vero problema è che la riforma aveva come obiettivo dichiarato quello di aumentare il numero di laureati e diminuire il numero di abbandoni. Parlando per le  realtà che conosco (facolta di scienze e di ingegneria), l’università è diventata un prolungamento della scuola superiore con le matricole coccolate dai tanti assistenti utilizzati nella didattica per far fronte al proliferare del numero di esami. Invece di accorpare nel triennio gli esami della vecchia quadriennale depurandoli di eventuali corsi troppo specialistici si è semplicemente deciso di diluirli in cinque anni e decine di esami riducendo drasticamente tutta la parte teorica, fondamentale per un serio corso di  studi che possa definirsi universitario. Tutto ciò immaginando, erroneamente, di rispondere alle esigenze del mondo del lavoro e senza pensare che la realtà imprenditoriale italiana non vuole veramente tecnici ma solo fessi da sottopagare e che in questa realtà sopravvivi solo se sei bravo, ma bravo per davvero. L’università di oggi, invece, ha perso persino la prerogativa di insegnare ai discenti la capacità di apprendere e di applicare le regole di base a qualunque tipo di realtà, semplicemente perché le regole di base non le insegna più a favore di nozioni  già vecchie  ben prima che lo studente possa farsi chiamare dottore.  Ovviamente la riforma ha avuto successo, gli abbandoni sono diminuiti, le iscrizione sono aumentate, i corsi di laurea e gli indirizzi si sono moltiplicati sfociando a volte in insegnamenti davvero assurdi e sono aumentati anche i laureati visto che oggi, col sistema dei crediti, giusto una trota non riuscirebbe a laurearsi più o meno in tempo. Ovviamente di tutta questa massa di “ignoranti”, specie se laureati solo con la triennale, le aziende non sanno cosa farsene, al contrario di altri paesi dove i tecnici col bechelor sono fortemente richiesti, qui vogliono solo laureati quinquennali e anche quelli sono costretti a formarli lamentandosi delle inefficienze del sistema universitario che almeno prima tirava fuori gente in grado di imparare da sola. Il risultato di tutto ciò è stato, ovviamente, un forte dilazionamento, rispetto a dieci anni fa, dei tempi necessari ad un laureato per trovare lavoro, in particolare da quando i call center sono stati sostituiti dai risponditori automatici.