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Ci lascia ieri, Carlo Fruttero che insieme a Franco Lucentini ha costituito uno dei più splendenti binomi della letteratura italiana, la premiata ditta Fruttero & Lucentini per oltre 50 anni ha firmato saggi giornalistici, traduzioni, antologie e romanzi, soprattutto gialli, opere indimenticabili come la Donna della Domenica o A che Punto è la Notte. Io ricorderò sempre F&L come curatori del più importante periodico di Fantascienza italiano, Urania di Mondadori che è stato da loro diretto dal 1961 al 1986 portando e adattando per l’Italia delle opere incredibili di autori fino ad allora, qui da noi, sconosciuti, come Ballard, Disch, Lovecraft, Matheson, Sheckley, Brown e Frederik Pohl, trasformando Urania, con l’aiuto di Karel Thole,  in una rivista più sofisticata che rimaneva, tuttavia, vicina al lettore e innalzando la fantascienza ad un livello meno fanciullesco, trasformandola in un prodotto più adulto anche se di nicchia.

Carlo Fruttero aveva 85 anni ed è morto nella sua casa di Roccamare, a Castiglione della Pescaia (dopo la scomparsa di Lucentini nel 2002 suicidatosi gettandosi nella tromba delle scale sfiancato dalla lunga malattia) Fruttero era la penna, lo stile del duo e oggi salutiamo per sempre la & più luminosa della letteratura italiana.

Arrivo discretamente in ritardo a parlare di “Prometeo e la Guerra – 1935”, il primo romanzo di una trilogia scritta da Alessandro Girola. Normalmente non scrivo un post su ogni libro che leggo, anche se dovrei, ma questo romanzo, in un certo senso segna una svolta nel mio modo di fruire dell’esperienza letteraria, ma andiamo con ordine.

“Prometeo e la Guerra – 1935” è un romanzo ucronico con alcuni elementi steampunk che si sviluppa a partire dall’assunto che la Grande Guerra è stata vinta dagli stati dell’Europa Centrale, in particolare dall’Impero Austro-Ungarico e dalla Germania, che ha annesso gran parte della Francia e del Belgio, che la Gran Bretagna sia ridotta ad uno stato satellite, avviato verso una deriva fascista, e che  l’Italia sia smembrata in stati e staterelli, che farebbero l’invidia degli odierni padani.

L’elemento che scatena questa ucronia è la verità sul romanzo più famoso di Mary Shelley. Il mostro di Frankestein, infatti, non è un mito letterario; in questo romanzo di Girola non solo il “mostro” è realtà ma viene prodotto in serie per essere usato come macchina da guerra da parte dell’impero Austro-Ungarico. I “Prometeo”, o più volgarmente gli “Assemblati”, così sono chiamati questi nuovi “mostri”, sono degli uomini ottenuti dalla fusione chirurgica di parti di diversi cadaveri, realizzati per essere più forti e condizionati ad essere docili e mansueti a meno di non essere impiegati in battaglia.

Il romanzo è ambientato nel dopoguerra, fra gli stati “rappacificati” in un nuovo precario equilibrio e racconta le vicende di un l’antropologo, Enrico Laddavero, e del Tenente Clelia Fagan dei Servizi di Sicurezza asburgici chiamati a risolvere il caso dell’omicidio di un parlamentare del Lombardo-Veneto, attribuito a un Prometeo, che, se non chiarito nel più breve tempo possibile, porterà inevitabilmente ad un incidente diplomatico con pesanti ripercussioni sull’esistenza stessa degli Assemblati, che nonostante non siano impiegati in battaglia da un ventennio, con la loro stessa esistenza hanno contribuito (e continuano a farlo) a mantenere in equilibrio il nuovo ordine mondiale.

Prometeo e la Guerra – 1935 è un romanzo davvero piacevole e che scorre velocemente fra le dita(*) lasciando quasi senza fiato il lettore. Se proprio dovessi attribuirgli un difetto è che l’ambientazione ucronica e le trovate fantascientifiche e steampunk sono talmente affascinanti da distogliere dalla narrazione che, in un certo senso, passa in secondo piano.

Molto bella, in particolare, l’appendice finale dove vengono spiegati i rapporti di forza dei vari Stati e l’evoluzione dell’ordine mondiale dopo la guerra del 15-18. Forse questa appendice andrebbe  letta persino prima del romanzo stesso.

Quando dico che “Prometeo e la Guerra -1935” scorre velocemente fra le dita(*) sto utilizzando un modo di dire sempre più vetusto; questo romanzo, infatti, è disponibile solo  come eBook e NON esiste in formato cartaceo ed è stato il primo libro elettronico che io abbia letto su un lettore dedicato. Per leggere questo libro in formato epub, in realtà, non ho usato un ebook reader ma un tablet con un apposito lettore installato e devo dire che l’esperienza non è stata affatto dissimile da quella di leggere un “vero libro” con in più la possibilità di fare annotazioni (senza imbrattare le pagine), di tenere il segno semplicemente mandando a nanna il tablet e di tenere spenta la luce di notte. Certo i libri di carta sono affascinanti, caldi, profumano e bla bla bla… ma in una microSD da 16 gb ci stanno 10 volte i libri che affollano ogni angolo di casa mia :-)

Tornando al romanzo di Alessando Girola, come tutti i suoi ebook, è scaricabile gratuitamente dal suo blog Plutonia Experiment e in questo caso, Vi assicuro, gratuità è tutt’altro che sinonimo di mancanza di qualità.

Era giunto il giorno, il Chopscan era stato posizionato nella Biblioteca del Congresso pronto per essere inizializzato.  La macchina era protetta da un battaglione di Marines in assetto di guerra per via delle minacce dei gruppi fondamentalisti della carta. Il Chopscan, fra pochi minuti avrebbe cominciato a inghiottire ad uno ad uno i milioni di volumi per digerirne il contenuto nel più grosso database del sapere mondiale condiviso. Fra pochi minuti quella carta ingiallita, quell’inchiostro sbiadito dal tempo si sarebbe trasformato in bit e in quella cellulosa, sempre più indispensabile per i bio-processori e sempre più introvabile per via della deforestazione. Fra pochi istanti, quel profumo di carta, quel richiamo nostalgico sarebbe andato in contro al suo inesorabile processo di distruzione, l’inizializzazione del Chopscan avrebbe segnato la fine dell’ultima raccolta di volumi cartacei presente sul pianeta: dovevamo fermarli.

A nulla erano valsi gli appelli accorati, le campagne di sensibilizzazione; non erano servite a niente le raccolte di firme e gli incontri politici, la cellulosa della carta era troppo preziosa per essere sporcata dall’inchiostro e raccolta in quei volumi rilegati tanto scomodi quanto affascinanti, ormai era deciso, anche i trecento milioni di libri della Biblioteca del Congresso, fino ad oggi, preservati dall’UNESCO sarebbero stati distrutti: non potevamo permetterlo.

Non avevamo la forza di affrontare i marines, dovevamo trovare un’altra soluzione ed eravamo pronti a tutto, eravamo anche disposti a farci esplodere, come moderni kamikaze imboccati dalla propaganda talebana, pur di salvare quel sapore di nostalgia, per salvare il mondo della cultura da se stesso. Avevamo previsto tutto e tutto era stato pianificato nei minimi dettagli, non restava che aspettare l’esplosione che avrebbe fermato il Chopscan, almeno per un po’. Io ero lì, fra i giornalisti convocati per la conferenza stampa successiva all’inizializzazione della macchina…

5… sulla mia faccia si era stampato un sorriso

4… adesso dovremo trovare il modo di proteggere la biblioteca per il futuro

3… spero che non riusciranno a collegarmi all’esplosione

2… il mondo ce ne sarà grato, un giorno

1… ci sarà almeno una vergine in paradiso per chi salva un libro

uno scaffale di libri alle spalle del Chopscan esplode, pezzi di legno e brandelli di carta volano nella sala, una scheggia di legno mi colpisce alla mano, fa male mi guardo attorno, i marines cercano di mantenere l’ordine, non sembrano esserci feriti gravi fra i presenti… io sono in stato di shock, non è riuscito a raggiungere la macchina, è morto invano, è la fine: il Chopscan verrà inizializzato e i libri moriranno, per sempre.

Mi piego, raccolgo un brandello di carta ai miei piedi, c’è scritto: – Gli Acari! Escono dalle fottute pagine-, piango.

 

Oggi Pierpaolo se ne esce con:
Arcà(1) non sono mai andato nello spazio e nemmeno in treno-,
cioè per lui viaggiare in treno o in astronave è sostanzialmente una questione di mezzo di trasporto e questo, se da un lato è inquietante, spiega cosa sta succedendo, in questi anni, alla science fiction, sopratutto, televisiva.

A parte Stargate Universe, finita ingloriosamente, in TV non si riesce più a vedere un bel fondo stellato e un’astronave con un equipaggio pronto a esplorare nuovi mondi. Per quanto mi riguarda è dalla fine di Star Trek:Deep Space Nine che non c’è una serie TV, chiamiamola di hard science fiction, fatta come si deve. La verità è che la fantascienza dura e pura non tira: negli anni ’60 un tablet che oggi costa 80 euro era uno strumento impensabile, coi comandi vocali si dialogava solo col computer di bordo dell’Enterprise, se dovevi comunicare con qualcuno dovevi chiamare un centralino, i computer, pure quelli fantascientifici, erano grossi, a valvole ed emettevano un sacco di beep. Oggi siamo abituati ad essere connessi 24h su 24h, se mi viene un dubbio su qualcosa lo cerco su Google col Blackberry, in un certo senso oggi è difficile ridestare quel “sense of wonder” che ha fatto la fortuna della SF letteraria e cinematografica negli anni ’60 e ’70. Gli stessi produttori e registi che hanno realizzato piccoli capolavori negli anni ’70 e ’80 hanno cambiato il loro approccio, non cercano più di creare stupore, l’ambientazione fantascientifica, oggi, è diventata solo strumentale a raccontare una storia, una storia che avrebbe potuto essere ambientata, nello stesso modo, in un liceo americano o nel far west. Prendiamo uno dei blockbuster della science fiction di questi anni: “Avatar”(2009). Chiunque ami, almeno un po’, la fantascienza non può non considerare Avatar nulla più che una vaccata immonda eppure produttore, sceneggiatore e regista del film è James Cameron, lo stesso Cameron di Terminator, Aliens, The Abyss, sì OK ha fatto anche Titanic, ma è proprio questo il punto: Avatar poteva essere ambientato su un barcone che affonda, sul pianeta Pandora o nel ballatoio di casa mia, sarebbe rimasto comunque una squallida storia d’amore e d’avventura infarcita di buoni sentimenti, NON c’è un solo elemento fantascientifico nel film realmente indispensabile per narrare la storia, non è Aliens, non è Terminator. Il problema quindi è il pubblico, non voglio credere che sia Cameron a corto di idee; spesso si parla di crisi di idee degli sceneggiatori ma se mio figlio, a quattro anni, non è per niente impressionato dal fatto di poter viaggiare fra le stelle e incontrare Topolino Marziano, hai poco da inventarti nuove storie, nuove tecnologie, nuove civiltà aliene per mio figlio sarà sempre un po’ come vedere uno spettacolo stantio, come può essere per me guardare un teatro di burattini. Sì certo si appassionerà nel vedere le battaglie in computer grafica dei Transformers ma difficilmente riuscirà ad innamorarsi di un futuro sognato, per certi aspetti, persino più arretrato del suo presente  e questo è un maledetto peccato.

(1) sì, mio figlio mi chiama Arcà

Giornali,  TV ma anche romanzi e saggi tendono ad utilizzare come sinonimi  due termini, genericamente derivati dalla letteratura fantascientifica, parlo di “cyborg” e “androide” che oltre ad avere un significato diverso hanno  un differente impatto culturale e antropologico sull’immaginario collettivo.

 

Il cyborg è un organismo cibernetico derivante dalla fusione di elementi artificiali ad un organismo biologico. Il termine che deriva dalla contrazione delle parole cybernetic organism viene coniato in ambito medico, nel 1960, da Manfred E. Clynese Nathan S. Kline in merito ai loro studi sulla sostenibilità della vita umana in ambienti extra-terrestri grazie all’apporto di integrazioni cibernetiche per adattare il corpo umano alle nuove condizioni.

 

L’androide  è un essere artificiale con sembianze umane che può anche integrare elementi biologici esclusivamente finalizzati a renderlo più esteticamente simile all’essere umano (è il caso del Terminator T-800 che è ricoperto da un’epidermide con le stesse caratteristiche di quella umana, compreso l’odore, ma che nonostante questo NON è un cyborg) Il termine androide deriva dal greco ανδρός che significa “uomo” e pare sia in uso dal 1200. Del resto la stessa suggestione di organismi meccanici simili all’uomo può essere fatta risalire alle leggende ebraiche sui Golem.

 

L’idea della possibile esistenza di un organismo artificiale antropomorfo è in un certo senso vecchia come l’uomo. Un androide prima di tutto non è vivo, da un certo punto di vista non ha un’anima e questo lo rende un giocattolo, pericoloso, a volte distruttivo, ma che  rimane un oggetto per il quale è difficile provare dei sentimenti. Certo la fantascienza è piena di racconti su androidi talmente umanizzati da destare un moto di angoscia e un senso pietà, Asimov si è persino inventato la robopsicologia, ma in ultima istanza un robot è una creazione non una creatura, si può averne paura certo, si può soffrire del complesso di Frankenstein, ma non è difficile, non è “immorale” pensare di sterminare una macchina, un mostro animato ma senz’anima.

 

Il mostro non trovava un posto nella società umana e, nella sua disperazione, si rivoltava contro lo scienziato e coloro che gli erano cari. Uno a uno i parenti dello scienziato (inclusa sua moglie) vengono uccisi e alla fine anche lo scienziato muore. Il mostro si allontana verso l’ignoto, presumibilmente per morire nel rimorso. (Isaac Asimov nella prefazione a “Il Secondo Libro dei Robot”)

 

Nella storia di Mary Shelley viene raccontato il terrore del creatore di essere sopraffatto dalla sua creatura, certo il mostro era di carne e sangue non era un robot di plastica e metallo ma la sua ribellione è uguale a quella di Skynet e dei Terminator di James Cameron, la creatura migliore del creatore, il creatore geloso della creatura alla fine un conflitto e la selezione naturale che fa il resto. Se però la creatura rimane un essere antropologicamente “inferiore”, se pure con una buona dose di sciovinismo, la questione si complica quando la creatura è uno di noi, un cyborg, un post-umano. Oggi la tecnologia  si è imposta in campo medico sia con l’introduzione di protesi per la sostituzione di una componente fisiologica “guasta” che per un utilizzo meramente estetico. Organi artificiali, protesi bioniche, esoscheletri neurali la tecnologia evolve sempre più verso la possibilità di creare un vero e proprio cyborg, verso la possibilità di fondere carne e metallo in un organismo nuovo, “più forte, più veloce”. Fondere carne e metallo, questa stessa espressione restituisce il senso di angoscia di fronte al timore di una nuova specie di post-umani che non sono macchine, non sono creature, ma che sono esseri umani potenziati per essere migliori ma diversi, con tutte le implicazioni che questo essere “diversi” comporta.

 

La letteratura ha affrontato il tema dei cyborg con due diversi approcci. Negli anni ’70-’80  il miglioramento cibernetico dell’uomo non era mai ricercato ma era il risultato di un incidente o di un sacrificio per un bene supremo; negli anni ’80-’90 con l’avvento del filone cyberpunk la trasformazione del corpo, l’introduzione di appendici meccaniche nella carne nasceva dal tentativo di superamento della condizione umana, dall’anelare ad uno stato post-umano. Nel cyberpunk, tuttavia, raramente si trova, negli autori, un compiacimento per la condizione post-umana, anzi quasi sempre l’umanità è più decadente e mai il miglioramento fisico è andato di pari passo col miglioramento sociale. Oggi la condizione post-umana, in un certo filone “transumanista” è, in un certo senso, auspicata ed è usata come trampolino di lancio per innalzare la mente ad un livello spirituale più elevato; come a volersi liberare del problema della vecchiaia, della debolezza, della fragilità dell’essere umano per poter aspirare a trascendere la stessa umana condizione.

 

Le nostre case, intanto, sono piene di ammennicoli sempre più intelligenti, robot per cucinare, per pulire, per lavare, nessun androide, nessuna paura, non ancora, ma certo quando sento parlare di queste robe qui vengo assalito da un certo senso di inquietudine.

 

[spoiler show=”Mostra Galleria Cyborg e Androidi” hide=”Nascondi Galleria Cyborg e Androidi”] [/spoiler]