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Alla veneranda età di 80 anni, stroncato da una grave insufficienza renale ci ha lasciato, il giorno della vigilia di Natale, Jibbs Jr., grande protagonista,  insieme all’ex nuotatore Johnny Weissmuller, dei primi due film della saga cinematografica su Tarzan, nel ruolo di Cheetah(Cita), la scimmia, compagna inseparabile dell’uomo della giungla, creato dalla penna di Edgar Rice Burroughs.

Jibbs Jr. viveva, dal 1960, nel Suncoast Primate Sanctuary a Palm Harbor, in Florida, dove, fino a pochi giorni fa, allietava i turisti con le sue performance e dove amava dipingere le sue “opere d’arte” astratte, suonare il pianoforte e ascoltare musica religiosa. Jibbs è entrato anche nel Guinness dei Primati per la sua longevità, inusuale per la sua specie. Nel 2009 la vita di Cheetah era divenuta pubblica grazie a un’autobiografia, “Me, Cheetah, curata dallo scrittore James Lever.

Un caro saluto a un mito della mia infanzia. R.I.P.

Una tecnologia sperimentale permette allo psicologo  di entrare nella mente dei pazienti e tentare una terapia “dall’interno”, da questo spunto nasce “The Cell – La Cellula” un horror fantascientifico del 2000 diretto da Tarsem Singh.

La dottoressa Catherine Deane sta tentando, utilizzando questa nuova tecnica ma con scarsi risultati, di risvegliare un bambino dal coma; pur essendo entrata in contatto con il piccolo ed averne conquistato la fiducia, però, la psicologa non riesce in alcun modo a riportarlo indietro. Proprio quando l’ospedale sta per decretare il fallimento della nuova terapia, l’agente dell’FBI Peter Novak contatta Catherine per chiederle di entrare nella testa di un serial killer, caduto in stato di coma poco prima di essere catturato e aiutarlo, così, a salvare  la prossima vittima. Stargher, il serial killer, infatti rapisce delle donne e le imprigiona in una cella ermetica che viene riempita pian piano d’acqua fino all’annegamento della povera malcapitata che successivamente viene trasformata in una specie di bambola per soddisfare le perversioni del mostro. L’ultima vittima di Stargher non è stata ancora ritrovata e potrebbe essere ancora viva.

Da qui in poi tutto il film diventa il viaggio nella mente di un pazzo, dove anche Catherine, che passa dal ruolo di guerriera sexy a quello di suora, rischia più volte di perdersi in un susseguirsi di visioni oniriche, ricordi mischiati a perversioni e dove come in un trip di ecstasy non si riesce più a distinguere la realtà dal sogno psichedelico di una persona disturbata.

Il film non brilla certo per la recitazione di Jennifer Lopez nei panni di Catherine e nemmeno per la regia schizofrenica che, se si giustifica durante la parte onirica, realizzata per disturbare lo spettatore, non ha senso nel resto del film, sopratutto nella prima parte che rimane totalmente e inspiegabilmente slegata dal resto della storia.

Se compri una macchina con una Finanziaria e non paghi le rate prima o poi arriverà l’agenzia di recupero crediti che ti porterà via l’auto, se non paghi le rate del mutuo della casa, la banca, presto o tardi, te la toglierà per venderla all’asta, ma se non paghi le rate del fegato di ricambio? Siamo in un futuro non troppo troppo lontano, la medicina ha fatto passi da gigante nel campo dei trapianti e la Union commercializza i più avanzati organi sintetici, salvando la vita a tantissime persone, ma la Union non è un ente benefico, il trapianto costa caro e non tutti hanno il denaro per potersi permettere un cuore nuovo. Niente paura però, la Union ha pronta per ognuno una linea di credito personalizzata per permettere a tutti di salvarsi la vita… devi farlo per la tua famiglia, devi farlo per te… e se non puoi pagare le rate? Beh dopo tre mesi verrà qualcuno a recuperare il “tuo” organo e poco importa se questo ti serve per vivere.

Repo Men, tratto dall’omonimo romanzo di Eric Garcia, è la storia di Remy (Jude Law) un recuperatore della Union, un livello 5, addestrato per i recuperi più complessi, spietato, cinico almeno fino a quando non finisce per ritrovarsi dall’altra parte. A causa di un “incidente”, infatti, Remy si ritrova con un cuore nuovo da pagare; la sua nuova condizione, tuttavia, lo porta ad una profonda riflessione sul suo lavoro e lo convince a tradire e combattere i suoi stessi ex-compagni.

Il film, alla fine, è un action movie molto godibile e ricco di colpi di scena, per quanto, in un certo senso, annunciati, con un Jude Law che non lesina nel mostrare pettorali e addominali scolpiti. Miguel Sapochnik, alla regia, si abbandona troppo spesso a immagini splatter  non necessariamente funzionali alla storia e non approfondisce più di tanto l’aspetto “morale” di una società dove “o paghi o muori”. Ad ogni modo il film scorre piacevolmente e nemmeno ci si accorge che sono trascorse due ore.

Questo è il periodo delle pandemie cinematografiche, dopo “28 Days Later” è la volta di Blindness, per la regia di Fernando  Meirelles, altra pellicola con protagonista una bella epidemia quasi letale, basata, questa volta, sul romanzo dello scrittore portoghese José Saramago, Ensaio sobre a Cegueira che, purtroppo, non ho mai avuto modo di leggere.

Tutto comincia con una strada trafficata e un auto che improvvisamente si ferma bloccando la circolazione. L’autista sembra stare male, viene soccorso dagli altri automobilisti e racconta di essere diventato improvvisamente cieco, ma di una cecità strana, la vista non è scomparsa nella tenebra ma la sua retina sembra impressionata da una luce bianca e lattiginosa.

Quello che può sembrare un interessante caso clinico, però, non è altro che il paziente zero di un’epidemia sconosciuta di cecità che, in breve tempo, sembra diffondersi in tutto il mondo. L’epidemia, tuttavia, non è altro che un espediente narrativo per mostrare l’impatto sulla società di un elemento destabilizzante come la perdita quasi simultanea della vista.

Per tutto il film si assisterà ad un’involuzione sociale, ad un imbruttirsi dell’umanità dove in poche settimane torna a prevalere l’egoismo e la violenza, dove l’importante è la sopravvivenza e dove sono i più forti ad avere il sopravvento; tutto ciò viene raccontato attraverso gli occhi della moglie del medico che per primo ha visitato il paziente zero(nessun personaggio nella storia viene identificato per nome), l’unica persona, sembrerebbe, rimasta immune all’epidemia, una donna che da sola è costretta a reggere il peso di un’umanità in disfacimento e nello stesso tempo ad essere l’unica speranza di rinascita per un mondo sprofondato negli abissi dell’inferno. Una bellissima Julianne Moore che si adatta benissimo al ruolo di una donna che, nel corso della storia, cambia profondamente, anche fisicamente, ma che per tutto il tempo riesce a centralizzare su di se e attraverso la luce dei suoi occhi il ruolo di faro dell’umanità.

Ad un certo punto, come tutto è iniziato, tutto finisce. Il paziente zero, come l’aveva improvvisamente persa, così riacquista la vista alimentando la speranza che, pian piano, tutto torni alla “normalità”; immediatamente si avverte un clima più sollevato; il mondo, di nuovo, si ferma per aspettare, questa volta, che si riaccendino le luci. Si avverte il sollievo della moglie del medico, come se si fosse scaricata di un enorme fardello ma, nello stesso tempo, sembra quasi di intuire una sorta di delusione da parte della donna per non essere più al centro del mondo in bianco.

Film da vedere, se non altro è un pugno nello stomaco.

In questi giorni, come personale colonna sonora automobilistica, sta girando la discografia di Edoardo Bennato se non altro perché al bimbo piace riascoltare ad libitum l’album “Sono solo Canzonette” e in particolare “Rockcoccodrillo”.

Ieri sera, così, mi è tornato alla mente Joe Sarnataro. Era l’A.D. 1992 e in TV apparve un lungometraggio, trasmesso in pillole nel primo pomeriggio , con protagonista un bluesman napoletano che, tornato dall’America, si mette in testa di esportare la democra.. ehm il rock&blues a Mergellina. Così, insieme a un gruppo napoletano, i Blue Staff e con l’aiuto di suo nonno Vincenzo(interpretato dallo stesso Edoardo Bennato), che elargisce perle di qualunquismo e saggezza partenopea  “ricevute in sogno” e che diventano parte dei suoi testi, in un certo senso, riesce nell’intento. La fiction era intitolata “Joe e suo nonno”, per la regia di Giacomo De Simone, e pur non essendo certamente il più grande capolavoro di RaiUno vede la partecipazione di attori “famosi” nel panorama televisivo italiano come Lino Banfi/Nicola Scarola o Renzo Arbore/Cav.Renzo e denuncia una Napoli di corruzione e malcostumi.  In realtà il film tv faceva parte di un progetto più ampio di un geniale Joe Sarnataro/Edoardo Bennato, insieme all’uscita di un album rock/blues dal titolo “È asciuto pazzo ‘o padrone” pubblicato dall’etichetta Virgin da Joe Sarnataro e i Blue Staff,  seguito da un tour europeo durato oltre due anni. Anche il disco, a dire il vero, musicalmente, per quanto godibile, è tutt’altro che originale, per quanto parlando di rock&blues c’è ben poco da essere originali, ma i testi, tutti in dialetto partenopeo, richiamano il Bennato delle origini, la denuncia dei limiti e delle carenze strutturali di una Napoli dove alla fine “nun se salva nisciuno” insieme agli elogi per quella napoletanità che la rende una delle città più belle del mondo.

Inutile dire che io comprai la musicassetta nel 1992 e, dopo averla letteralmente consumata, adesso torno a riascoltarmela… intanto un consiglio:

E’asciuto pazzo ‘o padrone!…
…E chiste sò nummere, sò nemmere buone
dieci, quindici, vintidoje e trentuno
joteville a jocà !…

e chiudo con uno stralcio del film TV, un pezzo che anche oggi è davvero “potente”