Girando sui social in questi giorni mi sono imbattuto nell’elogio sperticato di “Don’t look me up”, eletto erede spirituale di “Idocracy”, consacrato film cult di tutti i tempi… una produzione Netflix.
Credo di non aver mai visto al cinema una produzione italiana, o almeno non me lo ricordo (sì lo so sono uno schifoso snob); trovo il cinema italiano odiosamente provinciale e ancorato a trame desuete e terribilmente localizzate. È raro imbattersi in produzioni cinematografiche(per non parlare delle fiction) italiane con un respiro più ampio di quello legato alla turpe storiella di due amanti di provincia, all’eroismo delle forze dell’ordine e all’amore incondizionato del prete di campagna. Una sorta di mutamento sta avvenendo negli ultimi anni col filone al genere drammatico/poliziesco di film come Gomorra o Romanzo Criminale ed è proprio a questo sottogenere della cinematografia nostrana che questo Lo chiamavano Jeeg Robot, diretto da Gabriele Mainetti, si aggancia per una rappresentazione in chiave spaghetti-heroes dell’eroe con super poteri e grandi responsabilità. Non che non ci avesse provato Gabriele Salvatores due anni fa con Il Ragazzo Invisibile ma, inutile nasconderlo, con scarso successo (di pubblico e di critica)
Attenzione, se non avete ancora visto il film, proseguendo nella lettura potreste imbattervi in qualche spoiler.
La Corea del Sud da sempre è uno dei paesi fra i maggiori produttori di animazione, ma, per varie vicissitudini, le case di animazioni coreane hanno sempre lavorato per produzioni americane, europee e giapponesi.
Negli anni ’70 in Giappone impazza Mazinger Z, anch’esso prodotto in Corea e chiaramente fruibile dalla vicina ex-colonia giapponese, se pure il governo, dopo la pesante occupazione nipponica aveva vietato le opere giapponesi che non fossero pesantemente adattate. Ad ogni modo sulla scia del successo dell’opera di Nagai, in Corea del Sud, nasce “Robot Taekwon V“.
Guardate questo filmato, l’hanno già fatto in più di tre milioni e mezzo di persone, non ve ne pentirete.
Oggi si parla di Hunger Games, pellicola del 2012 basata sul omonimo romanzo di Suzanne Collins, scrittrice per bambini, e diretta senza troppa convinzione da Gary Ross.
Samo in un futuro distopico, nella nazione di Panem, nata dalle ceneri degli Stati Uniti, dove, da 74 anni, si svolgono gli Hunger Games: una sorta di reality show realizzato da una mega produzione della capitale (ebbene sì, Capital City), nel quale due rappresentanti di ognuno dei dodici distretti si affrontano in un combattimento mortale nel campo di battaglia all’interno di una foresta/set cinematografico totalmente controllato dagli strateghi del gioco e dal presentatore che possono farvi apparire palle di fuoco, alberi e animali spaventosi quanto improbabili.