E’ sempre un piacere ascoltare le parole di Vittorino Curci, lui si definisce poeta e sassofonista improvvisato, ma in realtà è semplicemente uno dei più importanti intellettuali pugliesi viventi con una cultura sterminata che spazia dagli autori classici a quelli contemporanei, anche sconosciuti ai più, e sentirlo parlare, è sempre fonte di nuovi spunti di riflessione.

Il suo intervento di ieri sera a Trani, guastato in parte dal maltempo, a cui ho assistito con estremo interesse, era incentrato sul ricordo di Franco Cassano, il grande sociologo barese scomparso nel febbraio scorso, tuttavia io sono rimasto colpito da alcune osservazioni su una parola a noi oggi tanto cara.

A me piace tanto giocar con le parole e non ci avevo mai riflettuto, ma questa sostenibilità è davvero una roba brutta.

Curci ci racconta intanto che, in analisi grammaticale, si tratta di un nome astratto e poi che, un po’ come tutte le parole con l’accento sull’ultima sillaba, esprime quel senso di assolutezza, categoricità, che non ammette discussioni, concludendo che difficilmente questa parola potrebbe trovar posto in una sua poesia.

La riflessione più interessante però è che la parola sostenibilità porta in grembo un’altra parola da cui, oggi non può più affrancarsi, ed è la parola sviluppo. Fateci caso, sostenibile non può, ormai prescindere da sviluppo, anche in altre lingue, e anche quando il linguaggio cerca di eliminare il terribile “sviluppo” inteso come crescita economica accompagnata da una continua innovazione delle tecnologie impiegate nella produzione di beni o servizi, di fatto la ingloba nel concetto di sostenibilità. Vediamo che dice la Treccani in proposito.

Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Il concetto di sostenibilità è stato introdotto nel corso della prima conferenza ONU sull’ambiente nel 1972, anche se soltanto nel 1987, con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland, venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso.

Capite l’ipocrisia della parola? Ora, io personalmente non ho niente contro lo sviluppo, anche quello insostenibile, in generale però il concetto è abbastanza inviso a un certo ecologismo di maniera e a una certa sinistra da salotto. Pierpaolo Pasolini, per dire, nei suoi “Scritti Corsari” differenziava i concetti di Sviluppo e Progresso, lui diceva

La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.

Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che hanno interessi immediatamente da soddisfare, appunto attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e dunque è sfruttato.

sostanzialmente, Pasolini, dipingendo lo sviluppo come qualcosa di destra, ricercato dai potentati economici e il progresso come qualcosa di sinistra, nozione ideale, sociale e politica e riconoscendo che non c’è progresso senza sviluppo, esprime esattamente il concetto di “sviluppo sostenibile” che ha dato origine, oggi, a quella parola ipocrita che è sostenibilità.

Il concetto di Sostenibilità nasce, dunque, perché altrimenti non hai modo di spiegare allo scemo di guerra, eterno fuori corso all’università, che va a fare i sit-in per Greta, ma anche allo stesso mostriciattolo svedese, che nessun G20 per l’Ambiente pensa lontanamente di rivedere il modello capitalista ma che, in realtà, questi Sustainable Development Goals, non sono altro che un modo per creare nuovo sviluppo a vantaggio degli stessi soggetti che fino a ieri perseguivano una crescita senza regole.

Vabbè vado a bermi un the freddo industriale e a fare una marcia per il pianeta.

 

Questo post nasce da una discussione in real life, evento ormai sempre meno frequente in una società sempre più orientata ai social e dove da un paio d’anni a causa dei noti problemi sanitari(diciamo così) si cerca di spostare la socialità sempre più in un ambiente virtuale.

Il discorso verte sostanzialmente su l’idea di un forte ridimensionamento del settore pubblico in Italia che ha dimostrato, proprio in questo momento pandemico, tutti i suoi limiti e diverse nefandezze, privatizzandolo per quanto possibile. Pure la Sanità? Sopratutto la Sanità! E qui inizia la discussione.

In questi mesi, quante volte abbiamo dovuto leggere o ascoltare pletore di imbecilli che predicano nei confronti di coloro che per vari motivi rifiutano il salvifico vaccino, circa il fatto che in caso di malattia avrebbero dovuto pagarsi le spese mediche? Un giorno di terapia intensiva costa 1000, 5000, 10.000 euro a seconda dell’interlocutore, di certo queste spese non possono essere a carico di coloro che hanno rischiato la propria vita iniettandosi il vaccino per il bene degli altri (oh dicono e pensano davvero così). Bene io sono d’accordo, d’accordissimo! La sanità pubblica universale nasce da un patto di solidarietà dei cittadini che versano parte delle proprie tasse per supportare le cure di tutti, io personalmente sono più per un modello tedesco (misto pubblico-privato), di certo quando, come nel caso del “pagati le cure“, questo principio di solidarietà viene meno io ti dico, più o meno provocatoriamente, benissimo io preferisco il modello americano. E qui partono gli anatemi. Ma come? Gli americani muoiono per strada quando hanno anche solo un raffreddore!

Uno dei più noti stereotipi contro gli yankee è questa storia della gente che muore nei pronto soccorsi perché non può pagarsi l’assicurazione. Ora è vero che il servizio sanitario negli USA è al 100% privato e nelle mani delle compagnie assicurative, com’è vero, però, che da sempre lo Stato Federale copre le spese per gli over 65 e per coloro che vivono sotto la soglia di povertà. Questo modello di sanità negli USA ha sempre funzionato bene e mai nessuno è morto per strada, almeno fino al 2008, quando la crisi economica ha messo in difficoltà il ceto medio che non è più stato supportato da polizze assicurative. Qui entra in gioco Barack Obama che, nel 2010, mette in piedi l’Affordable Care Act, meglio conosciuto come Obamacare, che di fatto avvicina il modello sanitario americano a quello tedesco allargando la copertura sanitaria federale agli indigenti e imponendo alle compagnie assicurative dei vincoli che impediscono di rifiutare polizze a chi abbia malattie pregresse oltre a eliminare i tetti di spesa.

Personalmente piuttosto che pagare il 50% di tasse di cui il 20% va a coprire i costi di un sistema sanitario inefficiente e che non investe in ricerca, preferisco affidarmi alle compagnie assicurative o a un modello sanitario misto.

Come sistema sanitario inefficiente? Non ricordi i nostri angeli del Covid? Ragazzi miei io quello che ricordo è che medici di famiglia e pediatri di libera scelta, durante le varie ondate pandemiche, sono letteralmente spariti dalla circolazione, se andava bene lavoravano in smart working come un qualsiasi impiegato del catasto e lo dico anche per esperienza personale. Ma non è che in ospedale sia andata tanto meglio, eh! Reparti intasati anche con numeri che avrebbero dovuto essere sostenibilissimi, risultati dei tamponi oltre le 48 ore e totale caos e disorganizzazione, senza contare le aziende sanitarie locali completamente allo sbando. Certo non è colpa del personale sanitario, non di tutto almeno, solo di quello che invece di lavorare si faceva i selfie in corsia per raccontare sui social quanto lavorasse.

Tutto ciò per voler tacere degli enormi sprechi della sanità pubblica che prescrive costosi esami clinici anche lì dove non ce ne sarebbe bisogno solo per condividere con altri specialisti la responsabilità di una diagnosi.

Ma al di là di ogni altra considerazione su sprechi e inefficienze, se devo vivere in un Paese dove la solidarietà vale solo se sei ideologicamente d’accordo con una certa visione del problema, preferisco una totale deregulation dove ognuno per se e dio per tutti, perché, cari miei, che vi riempite la bocca con la frase “lo dice la scienza“, dovete sapere che in realtà la scienza non dice proprio nulla. A parlare è, quasi sempre, la tecnologia, che è solo una vista sull’immensità della ricerca scientifica e che si limita a utilizzarne alcuni principi e la medicina è molto più vicina alla tecnologia che alla scienza. La verità è che è molto più titolato a parlare di scienza un filosofo come Cacciari, di cui beninteso non ho mai condiviso la visione del mondo, che un virologo come Burioni.

Se c’è una cosa che mi mette estrema tristezza è vedere gente della mia età avere lo stesso atteggiamento verso la vita che aveva mio nonno negli anni ’60, mi riferisco particolarmente a quel fenomeno di costume identificato col termine di “movida“.

Il termine trae origine dal clima di vitalità sociale, culturale e artistica, caratteristico della Spagna degli anni ’80 ed è stato mutuato nel Bel Paese per identificare la vita notturna all’insegna del divertimento soprattutto nel week end.

Già prima di quell’altro fenomeno di costume noto come lockdown, nascevano comitati di quartiere per combattere il gigantesco problema di gente che passava la notte a chiacchierare, itinerando fra bar e cornetterie e disturbando con il loro vociare  il sacro sonno di tanti instancabili quanto noiosi lavoratori. Durante e subito dopo il lockdown, poi, la movida è diventata, nelle dichiarazioni dei social-virologi, uno dei principali canali di diffusione del virus, al punto da rendersi necessario il coprifuoco; ora forse è ancora presto per rendersi conto della portata storica del concetto di coprifuoco, dell’idea stessa di impedire alla gente di uscire di casa dopo una certa ora, ma ne riparleremo, torniamo ora alla movida.

L’estate del 2021 probabilmente sarà ricordata come quella del ritorno alla normalità, sia pure condizionata da altre imposizioni e lasciapassare e pure di questi è ancora presto per comprendere la portata storica, resta il fatto che insieme alla normalità è ritornata la vita notturna; certo le discoteche sono sempre inspiegabilmente chiuse, ma forse anche per quello la gente della notte (cit.) è aumentata e con loro le tristi lamentele dei benpensanti,

Ora, sarà pure che io mi avvicino alla soglia dei cinquant’anni e quindi anagraficamente mi pongo nella fascia fra Jovanotti e mio padre quando è morto, ma sentire i pianti di coetanei per gli schiamazzi del bar sotto casa alle due di notte, leggere i commenti di ragazzi più giovani di me che alle 00:40 cercano i vigili per la musica di una festa nel palazzo di fronte perché alle 7.00 devo andare a lavorare e poi c’ho il bambino piccolo (15 anni)[1] che non riesce a dormire, insomma tutto questo mi infonde una profonda tristezza, perché poi sono quasi sempre gli stessi che inneggiano alla tolleranza verso questa o quella forma di discriminazione sociale, purché not in my backyard.

Comunque io un consiglio ce l’ho per voi: pare che il Parlamento stia per consentire (cito) – a persone maggiorenni la coltivazione e la detenzione per uso personale di non oltre quattro femmine di cannabis, idonee e finalizzate alla produzione di sostanza stupefacente e del prodotto da esse ottenuto -a questo punto insieme alla salvia e al rosmarino, nel vaso sul balcone ficcateci pure quattro piantine di canapa così che quando il rumore fuori dalla finestra si fa troppo forte… beh sapete già cosa dovete fare.

[1] pure mio figlio di 14 anni non riesce a dormire la notte perché passa tutto il tempo a giocare online con i figli vostri, ma mica io me la prendo col bar di fronte!

 

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Ma io davvero mi chiedo, quando parlate di transizione ecologica come pensate di farla?

Se tutto va bene entrerà in esercizio a fine anno-primi del 2022 il primo parco eolico offshore italiano in un’area vicina al porto di Taranto ma esterna allo scalo, per un investimento di circa 80 milioni di euro di fondi privati su uno specchio di mare di 131.000 mq  a 2 chilometri e mezzo dalla costa.

L’impianto è costituito da 10 turbine da 3 MW ciascuna con 30MW potenza nominale installata per una produzione stimata è di 55.600 MWh l’anno in grado di servire il fabbisogno di 18.500 famiglie.

Il progetto prevede fondazioni monopalo con un diametro di 4,5 metri, lunghezza totale di circa 50 metri, per 400 tonnellate di acciaio su cui saranno installate le torri da 80 metri e i rotori da 135 metri di diametro.

Niente di trascendentale, solo un piccolo, quasi insignificante, passo avanti nella transizione verso fonti rinnovabili ma ovviamente, come per tutto, c’è sempre un fronte del NO.

Gruppi di psicopatici cominciano a riunirsi su Facebook e Telegram per dire NO al disastro ambientale provocato da dieci turbine in mezzo al mare, a Taranto, dico a TARANTO una delle città più inquinate d’Italia, in un porto che ha visto sversare milioni di tonnellate di rifiuti tossici, industriali, civili e militari.

Eh ma è un danno per il paesaggio (in mezzo al mare?), poi sai la fauna ittica (che sicuramente prolifererà non essendo più consentito il transito navale), poi c’è l’inquinamento acustico (a due chilometri dalla costa), eh ma il turismo (il primo parco eolico off-shore italiano) e gli uccellini che vengono maciullati dalle pale… signori miei siete fuori come balconi. Ora io concordo che sia una goccia nel mare, un investimento quasi inutile, ma la verità è che qualunque cosa si faccia è sempre un problema di NIMBY, il rinnovabile sì, ma non a casa mia!

Il fatto è che vi meritate solo una centrale nucleare su per il culo, ma di prima generazione.

Questa mattina facevo un giro in moto, stavo per imboccare la statale quando vedo questo cartello imbrattato qui, subito sorrido e penso: «beh almeno i ragazzi di oggi non hanno perso le sane e becere abitudini di andare a esprimere sui muri il proprio risentimento per una storia naufragata» (vabbè non l’ho pensata proprio così) e immediatamente dopo mi ritrovo a scuotere la testa desolato. No, non desolato per l’atto vandalico che, pur esecrabile, rimane espressione di un sentimento di odio, una cosa sana, tutto sommato, ma che oggi è consentita solo verso i novax, come dice pure quel vecchio rottame di J-Ax che da Ahi Maria è passato a rappare Ave Maria, ma non divaghiamo, desolato dicevo non per il gesto ma per l’espressione usata.

In un mondo normale, sano, su quel cartello ci sarebbe scritto “Ivana è una puttana” che fa pure rima, oggi ci trovi scritto Ivana (pausa drammatica) escort. Escort capite? Perché certo tu vuoi insultare quella gran zoccola della tua ex, ma puttana non si può dire, è squalificante per il genere femminile, come ci insegna Nigella Lawson che in un impeto di cancel culture snowflake [1], decide di cambiare gli “spaghetti alla puttanesca” in “spaghetti alla sciattona” perché il termine slut non si può più usare.

Il fatto è che questo modo di fare dei cosiddetti social justice warrior[1],  questa idea di una neolingua fatta di asterischi, lettere ebraiche impronunciabili ed espressioni politically correct funziona, funziona bene, e loro lo sanno perché, pur essendo un branco di fascisti talebani, troppo spesso hanno anche studiato e questo li rende estremamente pericolosi, molto più di una pandemia. Quello che si sta sviluppando, sempre più velocemente, è il germe di un’idea diffusa volta a costruire una nuova lingua, con l’obbiettivo di creare un mezzo espressivo in grado di sostituire la vecchia visione del mondo (etichettata come patriarcale, sessista e discriminatoria) e le vecchie abitudini mentali rendendo, di fatto, impossibile ogni altra forma di pensiero semplicemente perché si vuole cercare di cancellare i mezzi espressivi in grado di codificarlo, una sorta di universo orwelliano iscritto nel club dei buoni, praticamente un Inferno sulla Terra. Il problema è che per cercare di guadagnare la fiducia di questa minoranza snob quanto crudele e perbenista, certa politica e certa stampa tendono ad avvallare tesi e atteggiamenti imbarazzanti solo fino a dieci anni fa.

Lino Banfi e Edwige Fenech

Cercare di contrastare certe idiozie, poi, dire di voler vivere in un mondo dove Lino Banfi in canottiera a coste può toccare le tette di una Edwige Fenech mezza nuda in una commedia per famiglie è qualcosa di improponibile perché ti ritrovi etichettato come salviniano, meloniano, sovranista, fassista, sessita e altre cose brutte che finiscono in -ista.

Ma alla fine cosa importa come vieni etichettato ma sopratutto a chi?  Mannaggia alla madonna dell’incoroneta!

[1] anche snowflakes e social justice warriors sono due locuzioni recenti che identificano, in alcuni contesti in modo dispregiativo, il modo dissociato di vedere la realtà di cui abbiamo parlato. Queste locuzioni, per certi versi, tuttavia, rientrano nella stessa narrazione su una neolingua politically correct, in quanto la maggiormente esplicativa espressione testa di cazzo è già presente in quasi tutte le lingue del mondo.