Eccomi qui, con una tazza di caffè fumante in mano, dopo un’autentica giornata di merda, a buttar giù pensieri inconcludenti sulla vita e sulla morte. I cimiteri hanno sempre suscitato in me un perverso fascino sinistro, ho sempre amato perdermi fra le tombe e immaginare le storie di che c’era dentro. Sepolcri tutti diversi e tutti uguali, ognuno in grado di narrare ricordi; croci di legno, di marmo, di metallo in memoria di una vita, non importa se lunga come la barba di Abramo oppure breve come il soffio di un bambino sulla sua prima candelina, quelle tombe sono lì a parlarci delle piccole gioie quotidiane, dei tanti dolori che hanno attanagliato chi non è più e chi gli è stato vicino in quegli ultimi istanti.
Da adulto, da quando, cioè, ci si accorge che il tempo che è davanti non è poi così infinito, ho sempre evitato i cimiteri, le volte che sono stato da mio padre si contano sulle dita di una mano per quanto, devo ammettere, che la visita al cimitero acattolico di Roma, un non luogo incredibile dove fra camelie, cipressi e gatti pigri riposano, fra i tanti, John Keats, Percy B. Shelley e Antonio Gramsci, mi ha donato un momento di vera serenità. Consiglio a tutti di visitarlo, se siete a Roma, ci si arriva facilmente, a due passi dalla fermata Piramide della Metro.
Dicevo. però, che da adulto ho sempre evitato i campisanti, anche se ci sono dei giorni in cui non si può fare a meno: oggi è stato uno di quelli! Eccomi, dunque, catapultato nella necropoli barese per ritrovarmi, come sempre, fin da bambino, a vagare fra i sepolcri cercando di ricostruire, dai pochi frammenti di un epitaffio, la vita di chi non c’è più: Ugo morto troppo presto, Maria nonna e mamma, Alessandro padre premuroso e poi il meraviglioso sorriso di una donna su una stele di marmo quasi anonima appoggiata sul terreno con una foto, un nome e una storia.
Il marito di Carmen ci parla di lei, giovane sposa e mamma, delle uscite in famiglia, delle piccole gioie quotidiane e poi… del dolore della malattia, di una sclerosi multipla che a poco più di 30 anni, inclemente, le ha portato via prima le gambe, poi gli occhi, poi la parola e ancora la concentrazione e, solo dopo dieci anni di sofferenza, la vita. Di Carmen oggi rimane una stele di marmo che fra dieci anni sarà demolita per lasciare il posto ad altri corpi senza vita, il suo splendido sorriso, il racconto di un marito innamorato e un ragazzino non ancora adolescente che ha dovuto vivere lo strazio di veder spegnersi, giorno dopo giorno, la sua giovane madre, da oggi un po’ di Carmen è anche con me e nella lacrima che stamattina, inconsapevolmente, scivolava dietro le lenti dei miei occhiali da sole made in China.