The planet has been through a lot worse than us. Been through earthquakes, volcanoes, plate tectonics, continental drift, solar flares, sun spots, magnetic storms, the magnetic reversal of the poles.. hundreds of thousands of years of bombardment by comets and asteroids and meteors, worldwide floods, tidal waves, worldwide fires, erosion, cosmic rays, recurring ice ages… And we think some plastic bags and some aluminum cans are going to make a difference? The planet isn’t going anywhere. We are! We are going away! Just another failed mutation. Just another closed-end biological mistake. An evolutionary cul-de-sac. The planet’ll shake us off like a bad case of fleas. 

George Carlin

L’ambientalismo, apparentemente, è animato da ottime intenzioni, beh più o meno come il nazismo; mica per nulla i gerarchi nazisti, a parole, erano tutti ambientalisti pronti a salvare il pianeta ma da chi? Secondo gli ambientalisti (e i nazisti) il problema del pianeta sarebbe l’uomo o meglio certi uomini e quindi è necessario porre in essere una serie di azioni per estirpare questo cancro che corrode Gaia attraverso decine di fantomatici rischi, con il risultato, quando va bene, di ottenere scarsi benefici a costi elevatissimi o, quando va male, di fare più danni di quelli che avrebbe generato il pericolo contro cui l’ambientalista si è scagliato.

Negli anni, la moda ambientalista ha dovuto combattere, con alterne fortune, i più svariati nemici, dalle centrali a carbone, alle scorregge delle mucche, passando per le coltivazioni OGM, fino ad arrivare ai piatti di plastica usati nei picnic; oggi tocca ai motori a combustione interna causa primigenia di tutti i mali del mondo in una battaglia senza quartiere alla riduzione delle emissioni di CO2. Purtroppo per i nostri amici ambientalisti l’85% delle azioni che compiono gli esseri umani sfruttano energia prodotta con emissioni di CO2 e l’80% dei costi di produzione alimentare sono costi energetici; sto dicendo che la moderna agricoltura altro non è che la trasformazione di petrolio in cibo per cui a dover dare retta a gente come Al Gore, impegnato nella lotta a ridurre le emissioni al 50%, qualche miliardo di persone morirebbe di fame. 

Comprendendo solo ciò che possono combattere, però, i nostri eroi si stanno concentrando sulla necessità di rimpiazzare il traffico veicolare a combustione interna con le nuovissime(?) auto elettriche. Attenzione: loro non parlano di incentivare il trasporto pubblico sulle lunghe tratte e l’utilizzo di mezzi muscolari per gli spostamenti brevi, loro guardano solo a sostituire le auto a combustibili fossili con i loro meravigliosi frullini a batterie alimentati da energia elettrica prodotta, sempre, da combustibili fossili, spostando ovviamente il problema da un’altra parte.

Eh, ma le fonti rinnovabili, io c’ho il pannellino fotovoltaico sul terrazzo della nonna che mi carica il cellulare e pure la macchinina! E che ne so? In Italia pare che, nonostante un lieve incremento del termoelettrico, ridotti gli incentivi dello stato, la quota delle rinnovabili si sia ridotta a un misero 32,4% nel 2017 (dati ufficiali di Terna)

Tornando alle auto elettriche, come ci mostra Carlo Beatrice, ricercatore dell’istituto motori del CNR, presentando un’analisi che raffronta le emissioni globali dei motori elettrici e di quelli termici, secondo i risultati di uno studio tedesco, le emissioni climalteranti globali di diesel ed elettrico sono ad oggi comparabili

Ovviamente il ragionamento non riguarda l’inquinamento prodotto in loco, è naturale che una macchina elettrica non emetta alcun agente nocivo quando è in funzione al contrario di un motore termico; lo spostamento delle emissioni che una massiccia elettrificazione porterebbe verso le centrali elettriche e l’intero ciclo di vita della vettura, tuttavia, portano Carlo Beatrice a concludere che, con le modalità attuali di produzione di energia elettrica media in Europa, le emissioni di CO2 globali di un veicolo elettrico e di uno a benzina siano simili, che un diesel è perfino migliore e che  se la produzione di energia fosse garantita interamente da fonti rinnovabili comunque esistono biocarburanti di ultimissima generazione che ridurrebbero del 90% le emissioni rispetto ai combustibili fossili attuali riportando in pari il bilancio ambientale fra motori termici e motori elettrici.

Questo significa che dobbiamo lasciare tutto così? Ovviamente no, tutto ciò significa che il futuro è tutt’altro che scritto e che, comunque, è necessaria una transizione verso una mobilità “CO2 neutral”, in particolare in Italia,  ma ci dice anche che incentivare la sostituzione di auto vecchie con modelli più nuovi e meno inquinanti, potenziare il trasporto pubblico locale, incentivare gli spostamenti a piedi e in bicicletta è molto più remunerativo, dal punto di vista ambientale, di costringere la gente a passare a dispositivi per cui non abbiamo le infrastrutture e nemmeno siamo pronti dal punto di vista energetico.

Poi, per carità, io sono il primo a volere in garage una Tesla Model S principalmente per due motivi, uno di carattere tecnologico, mi fanno impazzire tutti i gadget a bordo e l’altro legato al motore: erogazione lineare e 613CV per la versione sportiva P100D con uno 0-100 sotto i 3 secondi, purtroppo non posso permettermi al momento di spendere 150.000 euro anche se ho un contatore da 10Kwh.

Ora, vi lascio con un video sottotitolato di uno spettacolo di George Carlin che consiglio a tutti i supposti ambientalisti (tanto ai comici ci siete abituati) di riguardare almeno una volta al giorno per evitare di fare troppi danni.

Un bacione.


 

In uno dei commenti ormai sparsi per la social-sfera al mio articolo su Amazon Go, mi sono sentito dire che ci sarà la “profilazione definitiva”. Ora, ovviamente, questo è un commento tanto corretto quanto stupido. E’ chiaro che l’automazione porti alla profilazione degli utenti e puoi regolamentare la cosa quanto ti pare, alla fine non saprai mai che fine fanno i tuoi dati e le eventuali sanzioni, pesanti quanto vuoi, GDPR o meno, si ripagheranno sempre. Non c’è bisogno di Amazon Go, i nostri dati viaggiano sui social, con gli acquisti online, attraverso le telecamere stradali e di sicurezza e sulle schede fedeltà; ed è proprio di queste ultime che voglio parlare.

La risposta più facile da dare a quel commento idiota era proprio che esistono le schede fedeltà con punti e premi, che in un modo o nell’altro devono essere autorizzate, e che fanno profilazione  da decenni ma proprio mentre pensavo questo mi è balenato alla mente che io, già in base al Dlgs 196/2003 e ancora di più in base al Regolamento Ue 2016/679, il famoso GDPR, ho tutta una serie di diritti da accampare su quei dati, perché dunque non ho la facoltà di accedervi? Pensate a quanto sarebbe comodo avere un pannello di controllo che in base a tutte le spese effettuate faccia dei report statistici personali per categoria merceologica, frequenza di approvvigionamento, scostamenti dai budget. Certo ma se uno fa la spesa in più supermercati, questi dati sarebbero incompleti. Da qui l’idea di obbligare tutti gli store(Di Maio ascoltami questa è materia tua) a comunicare a un ente centrale tutti i dati di tutti gli utenti in tempo reale in modo da dare all’interessato contezza di tutte le informazioni che lo riguardano creando per lui una dashboard che gli fornisca indicazioni su come gestire la propria spesa anche raffrontando i prezzi dello stesso articolo o della stessa tipologia di articolo in diversi periodi e su diversi negozi. Immaginate le possibilità per gli utenti di scegliere e persino di avere un app come Bring che, utilizzando i dati raccolti e messi a disposizione in maniera anonima e in formato open,  data la lista della spesa dell’utente, gli dica in quale supermercato fra quelli in cui va abitualmente a fare la spesa c’è il prezzo più basso di ogni articolo in un determinato momento.

Ma non finisce qui. Immaginate tutti questi dati in pasto all’Istat, con gli opportuni correttivi si avrebbero delle statistiche puntuali dei consumi e questo aiuterebbe anche a fare delle scelte maggiormente mirate in sede di imposizione fiscale e di programmazione economica, i benefici di una cosa simile sarebbero illimitati.

E mentre sogno un futuro in cui l’uomo non abbia paura del progresso, tocca fare i conti con la dura realtà di un Italia in cui sono stati ridotti gli investimenti (europei) per la banda larga per (tentare) di dirottarli per lo sviluppo della piccola impresa, quel modello di business tardo ottocentesco il cui obiettivo è concedere all’imprenditore la possibilità di acquistare l’ultimo SUV.

Nei giorni scorsi ha suscitato clamore, un po’ in tutto il mondo, l’annuncio di Jeff Bezos di aprire, dopo una prima sperimentazione a Chicago e Seattle, in breve tempo, 3000 supermercati Amazon Go.

Cos’è Amazon Go? Per dirla in breve: la panacea di tutti (beh molti) mali. In pratica si tratta di supermercati dove tu entri, avvicini lo smartphone al lettore e cominci a mettere nel carrello ciò che ti serve, imbusti e te ne vai senza fare code alle casse, senza dover avere a che fare con le imbranatissime cassiere maschio, senza dover rivolgere la parola a sconosciuti, senza dover utilizzare astrusi sistemi di lettura dei codici a barre alle affollatissime casse automatiche presidiate dalla solita acidissima e grassa cassiera. Non ci dovremo preoccupare delle povere cassiere che devono lasciare i bimbi a casa alla domenica, penseranno a tutto telecamere e sensori che, in un modo talmente complicato che non riesco nemmeno a immaginarlo completamente, riusciranno a calcolare esattamente cosa abbiamo messo nel carrello e ci addebiteranno tutto su carta di credito mandandoci lo scontrino via mail.

Ovviamente tutto ciò ha messo in allarme i soliti luddisti che: «oh mamma, quel cattivone di Bezos ci farà perdere millemila posti di lavoro». Ora potrei stare qui a spiegare che non è proprio così, che i processi di automazione non hanno fatto altro che aumentare la qualità del lavoro riducendo l’alienazione dei lavoratori e questo a partire dalla rivoluzione industriale, ma nella realtà non mi interessa discutere con i cretini ed è anche vero che gente non qualificata, gente con la terza media presa per corrispondenza, gente che ha anteposto il divertimento alla propria formazione, finirà in mezzo ad una strada, il fatto è che io credo sia giusto così. Quando fai un lavoro a bassa (nulla) specializzazione hai poco da lamentarti se devi lavorare i giorni festivi dal momento che il tuo potere contrattuale è nullo e non ti devi nemmeno stupire se verrai sostituito da una macchina, la prossima volta studia somaro. Chi difende questa visione del lavoro, legata a canoni settecenteschi, attaccando l’automazione dei processi come fosse un nemico del popolo andrebbe impalato in pubblica piazza, perché “amici” miei, che vi piaccia o no, non potrete fermare la giostra, potete solo saltarci sopra se siete ancora in tempo oppure soccombere e diventarne uno degli ingranaggi da sostituire a breve.

Anche la chiusura a Ferragosto genera problemi di aggregazione sociale

Una piccola riflessione sulla crisi dei centri commerciali. 

Da ormai un decennio gli USA stanno vivendo la crisi del modello del Centro Commerciale, il mitico Mall che abbiamo imparato ad amare in tante serie TV degli anni ’80. Le motivazioni sono diverse, principalmente riconducibili alla crisi dei mutui subprime del 2008, fino alla nascita e alla capillare diffusione delle vendite online.
 
Tutto bello, finalmente ritorneremo ad un modello più “sostenibile” che vedrà il ritorno della piccola bottega di quartiere, del negozietto di vicinato? Nemmeno per sogno, le motivazioni che hanno portato alla crisi dei Mall non sono riconducibili nemmeno lontanamente al modello di “decrescita felice” ipotizzato nei primi anni del secolo mentre permangono le motivazioni che negli anni ’60 in USA e più recentemente da noi hanno portato alla nascita dei centri commerciali. La gente non vive più nel centro cittadino, nemmeno nei piccoli borghi. Per diversi motivi, infatti, ci si rifugia  nelle periferie urbane e suburbane, che siano grandi palazzoni o villette a schiera, si tratta di dormitori, non c’è più la piazza centrale, non c’è più spazio per il negozietto o per la piccola bottega, non c’è spazio nemmeno per i pedoni, per quanto, oggi, vadano di moda le piste ciclabili messe in ogni dove “a cazzo di cane”.
 
Il modello del grande Mall, a livello di architettura, nasceva proprio per sopperire a tutto questo. Le persone, infatti, passano il proprio tempo sostanzialmente in tre posti: a lavoro, a casa e nei centri di aggregazione che una volta erano le piazze, i cinema, i teatri, gli oratori che oggi non trovano più posto in un modello urbano che, adeguandosi al nuovo tessuto sociale, ha portato alla nascita di grossi centri di aggregazione sociale  “artificiali” certo, ma assolutamente efficienti e funzionali e dove, incidentalmente, puoi anche fare la spesa.
 
Gioire della chiusura dei centri commerciali, dunque, al di là della problematica economica, non è producente per motivi sociali, perché indietro non si torna, la “decrescita felice” è un po’ come la “La corazzata Kotiomkin” di fantozziana memoria e se togli alla persone i centri di socializzazione succederà esattamente ciò che sta succedendo in USA, ci si chiude in casa a cercare nuovi amici su Whatsapp e a spendere su Amazon.

Di seguito un interessante video che parla proprio di questo

Piccola riflessione sull’amore quasi come una risposta a chi l’amore tiene e chi l’amore sa. Ma facciamo a intenderci che cos’è l’amore?

Sì lo so, lo state pensando anche voi, una prima risposta non può che darcela, beh quasi, il celebre brano  di Vinicio Capossela, quando sul finale, in un certo senso sintetizza:

Che cos’è l’amor?
È quello che rimane
Da spartirsi e litigarsi nel setaccio
Della penultima ora
Sì perché l’amore, in fondo, è quello che rimane quando, tuo malgrado, ti trovi ricacciato nella dannazione degli inferi di un bar, ma tutto sommato non sei ancora alla fine e il più delle volte, già lo sai,  che non sarà l’ultima volta che starai lì a guardare il fondo di un bicchiere. In un certo senso possiamo dire che l’amore è una delle principali cause dell’alcolismo, del resto una scusa per bere uno deve pure avercela, no?
 
Ma proviamo un approccio diverso. Noi qui siamo obnubulati da questo amore come forza pervasiva che è preesistente nell’universo, ma chi ha inventato l’amore? Beh non c’è una risposta facile a questa domanda ma, più o meno, storici e antropologi vedono l’amore romantico, quello che mette in secondo piano l’istinto sessuale, come una caratteristica della cultura occidentale, addirittura si dice che il «culto» dell’amore romantico non si sarebbe sviluppato prima della rivoluzione industriale, quando il passaggio da una cultura rurale ad una industriale, con la nascita del sottoproletariato ha portato alla perdita di importanza dei contratti matrimoniali. Con questi cambiamenti comincia ad assumere invece rilevanza la cultura delle donne che cominciano a rivolgersi al romanzo e ai racconti come fonte del sentimento, non a caso Stendhal ci tiene a farci sapere che «A Parigi l’amore è figlio del romanzo» e ce lo racconta ancora una volta Capossela quando dice
Che cos’è l’amor
Chiedilo alla porta
Alla guardarobiera nera
E al suo romanzo rosa
Che sfoglia senza posa

Ora non ho voglia qui di buttare giù un trattato antropologico sull’amore, anche perché tanti l’hanno fatto meglio di me anzi vi consiglio proprio Antropologia dell’Amore di Dino Burtini

L’amore è una chiave perfetta per cogliere i dati fondamentali di una cultura, perché esso interessa la sfera più profonda della personalità umana. Il lavoro è una descrizione attenta e intrigante dei comportamenti umani relativi alla vasta sfera dei modi di agire, individuali e sociali, legati all’amore (le feste della pubertà, i rituali dell’unione, il corteggiamento, l’adulterio, la sessualità, l’eros), sentimento che coinvolge sempre e inevitabilmente l’intera complessità dell’individuo, dal piano biologico a quello psichico, a quello intellettuale, a quello etico. 

Bene ora che abbiamo visto più o meno che cos’è, proviamo a chiederci a cosa serve l’amore?

In qualche modo ce lo spiegano, ognuno dal suo punto di vista,  Edith Piaf e Theo Sarapo in questo splendido video. 

Ma la conclusione forse è un po’ troppo romantica, diciamo così,  del resto, ammettiamolo, la domanda è stupida. Stupida perché  la risposta non potrà che essere soggettiva e limitata;  ragionare su ciò che viviamo attraverso l’amore infatti è assurdo, l’amore rende tutto idilliaco, meraviglioso, eterno, di un’eternità che generalmente dura poco anche se resta per sempre. Tutto ciò, a meno che non vogliamo trovarne un significato antropologico intriso di cinismo, ma ancora una volta vi rimando alla letteratura.

Dunque quest’amore perché?  Da quello che abbiamo detto fin’ora, tutti, prima o poi, proviamo questo sentimento a volte totalizzante, un sentimento ci fa stare il più delle volte bene, anche quando fa male e ci dona quella superiorità morale che ci fa sentire mezzo metro sopra tutti gli altri, perché non esiste, non è mai esistito, non esisterà mai un amore come il nostro. Quindi la domanda giusta è perché no ma sopratutto perché una volta sola? Ancora una volta ci viene in aiuto Capossela

che cos’è l’amor
è un sasso nella scarpa
che punge il passo lento di bolero
con l’amazzone straniera
stringere per finta
un’estranea cavaliera
è il rito di ogni sera
perso al caldo del pois di san soucì

L’amore è il più gran malinteso fra le persone. Si può amare una donna, un uomo, un sorriso, uno sguardo, un vezzo, una frase detta per sbaglio, quella sensazione di attrazione è così totalizzante che non possiamo farne a meno, al punto che non si è mai appagati, al punto che cercheremo sempre l’amore per tutta la vita, specialmente dopo aver trovato quello eterno.

E allora vi chiederete, e tu? Io sono come tutti gli altri, cerco il filo di un ricamo un accordo in la minore per gridare forte t’amo / se ho degli attimi di rancore cerco te e la tua bocca nei tuoi occhi trovo amore