Se compri una macchina con una Finanziaria e non paghi le rate prima o poi arriverà l’agenzia di recupero crediti che ti porterà via l’auto, se non paghi le rate del mutuo della casa, la banca, presto o tardi, te la toglierà per venderla all’asta, ma se non paghi le rate del fegato di ricambio? Siamo in un futuro non troppo troppo lontano, la medicina ha fatto passi da gigante nel campo dei trapianti e la Union commercializza i più avanzati organi sintetici, salvando la vita a tantissime persone, ma la Union non è un ente benefico, il trapianto costa caro e non tutti hanno il denaro per potersi permettere un cuore nuovo. Niente paura però, la Union ha pronta per ognuno una linea di credito personalizzata per permettere a tutti di salvarsi la vita… devi farlo per la tua famiglia, devi farlo per te… e se non puoi pagare le rate? Beh dopo tre mesi verrà qualcuno a recuperare il “tuo” organo e poco importa se questo ti serve per vivere.

Repo Men, tratto dall’omonimo romanzo di Eric Garcia, è la storia di Remy (Jude Law) un recuperatore della Union, un livello 5, addestrato per i recuperi più complessi, spietato, cinico almeno fino a quando non finisce per ritrovarsi dall’altra parte. A causa di un “incidente”, infatti, Remy si ritrova con un cuore nuovo da pagare; la sua nuova condizione, tuttavia, lo porta ad una profonda riflessione sul suo lavoro e lo convince a tradire e combattere i suoi stessi ex-compagni.

Il film, alla fine, è un action movie molto godibile e ricco di colpi di scena, per quanto, in un certo senso, annunciati, con un Jude Law che non lesina nel mostrare pettorali e addominali scolpiti. Miguel Sapochnik, alla regia, si abbandona troppo spesso a immagini splatter  non necessariamente funzionali alla storia e non approfondisce più di tanto l’aspetto “morale” di una società dove “o paghi o muori”. Ad ogni modo il film scorre piacevolmente e nemmeno ci si accorge che sono trascorse due ore.

Non c’è niente da fare, sin da bambino, tutto quanto fosse legato alla “campagna”(*) non mi ha mai attirato. Ci sono due periodi, in particolare, che non ho mai sopportato: la vendemmia e la raccolta con relativa molitura delle olive nel frantoio.

Io, in genere, mi rifiuto di partecipare a questa sorta di “riti pagani”, oltre tutto, perché ricavo un fastidio fisico dal sapere che tutta l’attività legata alla campagna, per come la gestiamo in famiglia, è totalmente anti-economica e viene fatta solo per è una cosa che DEVE essere fatta. Quest’anno tuttavia, con mio padre tutt’altro che in forma, ho passato il pomeriggio di ieri al frantoio. Nonostante l’immensa scocciatura dello “sprecare” in questa maniera il mio, sempre più prezioso, tempo libero, ne sono venute fuori almeno due cose positive. Tanto per cominciare Pierpaolo si è divertito un mondo, non aveva mai visto un frantoio e questo era un opificio semi-industriale e quindi, per quanto non fosse elevatissimo, il livello di automazione del processo di molitura, agli occhi del bambino di quattro anni, è apparso quasi fantascientifico (non faceva altro che osservare le macchine e ripetere “come un’astronave”). La seconda cosa da non sottovalutare è che mi sono portato via due litri di olio appena prodotto che, nonostante ci sia chi non è d’accordo con me, è una cosa di una squisitezza unica.

(*) la mia famiglia, i miei genitori in realtà, possiedono alcuni pezzi di terra, coltivati ormai solo ad uliveto, da cui si ricava l’olio extravergine di oliva per tutta la famiglia. C’è da dire che, visto i tempi che corrono, finisce che avere la disponibilità di un pezzo di terra, alla fine, tornerà utile ;-)

OK la foto non è un granché, fotocamere da cellulare e poca luce non vanno d’accordo, ma riprende l’immagine suggestiva di un ipermercato deserto, dove tutto è spento. Un posto, fino a poche ore prima, pieno di gente, di bambini che giocano, di ragazzette che si atteggiano a dive della TV, di giostrine, esibizioni, negozi e luci di Natale è morto, ma di una morte bella, una morte che porta in sé il germe della resurrezione.

Mentre guardavo la galleria in penombra mi è venuto in mente questo:

Credo nella gentilezza del bisturi, nella geometria senza limiti dello schermo cinematografico, nell’universo nascosto nei supermarket, nella solitudine del sole, nella loquacita’ dei pianeti, nella nostra ripetitivita’, nell’inesistenza dell’universo e nella noia dell’atomo.

 

Questo è il periodo delle pandemie cinematografiche, dopo “28 Days Later” è la volta di Blindness, per la regia di Fernando  Meirelles, altra pellicola con protagonista una bella epidemia quasi letale, basata, questa volta, sul romanzo dello scrittore portoghese José Saramago, Ensaio sobre a Cegueira che, purtroppo, non ho mai avuto modo di leggere.

Tutto comincia con una strada trafficata e un auto che improvvisamente si ferma bloccando la circolazione. L’autista sembra stare male, viene soccorso dagli altri automobilisti e racconta di essere diventato improvvisamente cieco, ma di una cecità strana, la vista non è scomparsa nella tenebra ma la sua retina sembra impressionata da una luce bianca e lattiginosa.

Quello che può sembrare un interessante caso clinico, però, non è altro che il paziente zero di un’epidemia sconosciuta di cecità che, in breve tempo, sembra diffondersi in tutto il mondo. L’epidemia, tuttavia, non è altro che un espediente narrativo per mostrare l’impatto sulla società di un elemento destabilizzante come la perdita quasi simultanea della vista.

Per tutto il film si assisterà ad un’involuzione sociale, ad un imbruttirsi dell’umanità dove in poche settimane torna a prevalere l’egoismo e la violenza, dove l’importante è la sopravvivenza e dove sono i più forti ad avere il sopravvento; tutto ciò viene raccontato attraverso gli occhi della moglie del medico che per primo ha visitato il paziente zero(nessun personaggio nella storia viene identificato per nome), l’unica persona, sembrerebbe, rimasta immune all’epidemia, una donna che da sola è costretta a reggere il peso di un’umanità in disfacimento e nello stesso tempo ad essere l’unica speranza di rinascita per un mondo sprofondato negli abissi dell’inferno. Una bellissima Julianne Moore che si adatta benissimo al ruolo di una donna che, nel corso della storia, cambia profondamente, anche fisicamente, ma che per tutto il tempo riesce a centralizzare su di se e attraverso la luce dei suoi occhi il ruolo di faro dell’umanità.

Ad un certo punto, come tutto è iniziato, tutto finisce. Il paziente zero, come l’aveva improvvisamente persa, così riacquista la vista alimentando la speranza che, pian piano, tutto torni alla “normalità”; immediatamente si avverte un clima più sollevato; il mondo, di nuovo, si ferma per aspettare, questa volta, che si riaccendino le luci. Si avverte il sollievo della moglie del medico, come se si fosse scaricata di un enorme fardello ma, nello stesso tempo, sembra quasi di intuire una sorta di delusione da parte della donna per non essere più al centro del mondo in bianco.

Film da vedere, se non altro è un pugno nello stomaco.

Come ogni anno, immancabilmente, deve arrivare  il post sull’albero di Natale. Il 2011 è l’anno dei Puffi, l’action movie sulle creature blu alte due mele e qualcosa ha appena finito di spopolare nelle sale cinematografiche e puffando puffando a casa mia ha trovato dimora un nuovo baby-puffo di nome Gabriele che, a dirla tutta, non è blu e più che un puffo sembra un tacchino con gli occhi a palla. Ad ogni modo cazzeggiando su eBay in un giorno di “scazzo” mi appare l’inserzione di un albero di Natale color puffo… il puntatore del mouse si muove come un fulmine sul pulsante “compralo subito” e, prima ancora di avere il tempo di riflettere, si chiude la transazione con Paypal. Il risultato di questa mirabile compravendita è nelle foto sotto; dico solo che in tutto ciò il puffo 4-enne si è divertito un mondo.