Premesso che, per quel che vale, non ho alcuna stima per le posizioni più volte prese dal sindaco di Firenze e per gran parte delle sue azioni come amministratore, non riesco in alcun modo a dargli torto in questa questione delle aperture dei negozi per il giorno del 1 maggio e ritengo davvero pretestuose le posizioni prese dalla CGIL in merito allo sciopero dei commercianti. Il problema a Firenze come a Bari o in qualunque altra città non riguarda tanto le regole sulle aperture degli esercizi commerciali quanto il trattamento dei lavoratori. Assodato che non sta scritto da nessuna parte nel CCNL del Commercio che non si possa lavorare la domenica o in qualunque giorno festivo, ci sono invece scritte tante altre belle cosine su orari, turni,  riposi pagati, straordinari, ferie non godute che andrebbero applicate alla lettera per garantire davvero ai lavoratori la tutela dei propri diritti. Andrebbero, poi, stroncati con multe salatissime tutti quei datori di lavoro che approfittano della propria posizione per “obbligare” i propri dipendenti di lavorare al di fuori di quelle che sono le regole o con contratti non adeguati alle reali mansioni svolte.

Un commento ad un mio post di qualche giorno diceva che la legge Bersani sul commercio andrebbe abolita: sono d’accordo! Non è possibile che una legge dello stato o regionale e delle delibere comunali possano regolamentare le aperture dei locali commerciali; i commercianti dovrebbero sentirsi liberi di aprire come e quando gli pare in funzione dei flussi di possibili acquirenti e quindi guadagnare di conseguenza. Chiudere i negozi di Firenze (o in qualunque città con un pesante afflusso di turisti) il 1 maggio è semplicemente folle.

La cosa che più mi disturba, tuttavia,  è che si è scelto per innescare la polemica proprio il 1 maggio, la giornata in cui si celebrano le conquiste fatte a tutela dei diritti dei lavoratori, diritti che oggi vengono quotidianamente disattesi senza che gli strenui difensori della chiusura del 1 maggio muovano un dito, non dico per impedire ma almeno per denunciare lo scempio che si continua a fare dello statuto dei lavoratori attraverso l’utilizzo indiscriminato di contratti atipici e a tempo determinato. Assicuratevi, maledizione, che quei lavoratori che dovranno, malgrado tutto, lavorare domenica prossima nei ristoranti, nelle pizzerie e nei negozi aperti abbiano il riposo pagato, assicuratevi che nei centri commerciali la smettano di ricorrere a contratti interinali a carattere stagionale, fate in modo di dare ai lavoratori la certezza di un futuro invece di rincorrere un concetto distorto di flessibilità. Basta con sterili polemiche politiche che diventano scontri fra ultras, è arrivato il momento di tornare a quei valori che hanno permesso di vincere la lotta per porre un limite agli orari di lavoro e che hanno dato origine alla Festa del Primo Maggio. E’ necessario riaffermare il valore di questo giorno simbolico e fare in modo che serva da monito per impedirci di ricadere nelle logiche di sfruttamento da cui i nostri genitori si sono faticosamente affrancati, sperando che non sia troppo tardi.

Scrivere di musica non è facile, è impossibile utilizzare dei criteri oggettivi per giudicare una fonte di emozioni qual’è l’ascolto di un nuovo disco, dunque è davvero difficile parlare del nuovo disco di Vinicio Capossela uscito in questi giorni. Posso solo dire che, già al primo ascolto, non delude assolutamente, si ritrova un Capossela ormai maturo che fa rivivere, in quella che si può definire una perfetta commistione fra musica e letteratura, attraverso i 19 pezzi di questo doppio album, le atmosfere esotiche dei romanzi di Salgari e Melville. Tecnicamente il disco è praticamente perfetto, si vede che Capossela ha sperimentato molto in questi anni e i risultati non si sono fatti attendere,  l’utilizzo dei cori in quasi tutti i pezzi è semplicemente magnifico. Se anche a molti potrà sembrare lontano dai primi dischi e dai brani celebri e festaioli di Vinicio Capossela come “il Ballo di San Vito”, “Maraja”, “Con una Rosa”, in realtà questo “Marinai, Profeti e Balene” è la naturale prosecuzione di “Ovunque Proteggi” ed è evidentemente il culmine di un cammino intrapreso fra teatri, libri e concerti dopo “L’Indispensabile”. Da ascoltare in religioso silenzio.

25 anni fa, il 26 aprile del 1986, durante l’esecuzione di un test nella centrale elettronucleare di Chernobyl, a causa di un errore del personale nel corso di una simulazione di guasto al sistema di raffreddamento, le barre di uranio del nocciolo del reattore nucleare numero 4 si surriscaldarono fino alla fusione del nocciolo  con due esplosioni che scoperchiarono la copertura e dispersero nell’atmosfera particelle radioattive. Gli effetti delle esplosioni in pochi giorni si diffusero in tutta l’Europa, italia compresa contaminando l’atmosfera e il terreno se pure in maniera non particolarmente dannosa per gli esseri umani. Ricordo, tuttavia, all’epoca, la corsa ad accaparrarsi le scorte di cibo in scatola, il latte UHT e, per mio sommo gaudio, l’astinenza dalla verdura; i miei genitori, un po’ come tutti, avevano paura, anche perché i media, come al solito, facevano terrorismo e non c’erano informazioni di prima mano. Nel 1986 esisteva ancora l’URSS e la Guerra Fredda, internet non c’era e le informazioni stentavano ad arrivare, la stessa popolazione civile  fu evacuata solo dopo tre giorni nonostante il rischio reale di contaminazione, nessuno davvero sapeva cosa fosse successo… io intanto pensavo a come potesse essere vivere in un rifugio anti-atomico.

Il disastro di Chernobyl riportò nel mondo il terrore dell’atomo (come dicono i giornalisti che evidentemente non sanno di essere fatti di atomi) dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e convinse molti paesi, fra cui l’italia, a ripensare alle proprie politiche energetiche.

Oggi che Chernobyl cominciava, quasi, ad essere dimenticata è la volta di Fukushima, a ricordarci che la tecnologia, anche la più sicura, ha sempre le sue falle e che in certi casi un errore può costare molto, troppo, caro; questo tuttavia dovrebbe servirci da monito, aiutarci a rimanere in guardia di fronte all’imponderabile non a renderci schiavi del terrore, impauriti come il primo Sapiens di fronte al fuoco.

 

 

 

Comincio a credere che i pubblicitari di IKEA siano dei geni.

Così il sottosegretario con delega alla famiglia, alla droga, al servizio civile, sen. Carlo Giovanardi (sì, nel governo nel governo del Bunga Bunga c’è anche questo), a proposito del manifesto di sopra:

”L’Ikea  è libera di rivolgersi a chi vuole e di rivolgere i propri messaggi a chi ritiene opportuno. Ma quel termine ‘famiglie’ è in aperto contrasto contro la nostra legge fondamentale, secondo cui la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio, in polemica contro la famiglia tradizionale, datata e retrograda”.

Ora io non credo di essere in grado di fare l’esegeta della Costituzione italiana, non è ho la formazione, la voglia e probabilmente la capacità, ma una cosa è certa: l’articolo 29 della Costituzione dice che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, in pratica non dice da nessuna parte che la famiglia deve essere fondata sul matrimonio ma solo che la famiglia nell’accezione di “società naturale fondata sul matrimonio” gode di particolari tutele da parte della Repubblica.

Del resto la Costituzione Italiana non è un dizionario che invece recita:

Famiglia sf
complesso di individui congiunti da vincoli di sangue o uniti da rapporto di parentela o affinità, che vivano insieme

Comunque il motivo del post non è tanto quello di fare le pulci alle dichiarazioni di Giovanardi(*) quanto quello di elogiare ancora una volta l’IKEA per le sue campagne pubblicitarie, ormai si può dire,  dirompenti oltre che per il fatto che, davvero, l’IKEA è aperta alle esigenze delle famiglie.

(*) del resto al novello Savonarola si potrebbe pure eccepire che nella Costituzione non sta nemmeno scritto che il matrimonio debba essere per forza eterosessuale, eh!

 

Lo scorso agosto mentre un’avvenente 27enne (che non è quella in foto) era intenta a prendere il sole, in spiaggia,  in topless, scoppia il putiferio. Una signora, vicina d’ombrellone con i suoi figli adolescenti, redarguisce la ragazza che si stava spalmando la crema solare sulle tette e le intima di coprirsi. Al rifiuto della giovane vengono coinvolte le forze dell’ordine e la ragazza viene denunciata per atti osceni in luogho pubblico perchè il suo comportamento avrebbe turbato il benessere psicofisico dei due adolescenti (sic!).

Di atti osceni, ovviamente, non si può parlare per due tette in spiaggia (o almeno non ancora) e dunque il giudice per le indagini preliminari di Velletri stabilisce che spalmarsi la crema solare sul seno mentre si è in spiaggia non costituisce reato e dispone quindi l’archiviazione del procedimento a carico dell’avvenente fanciulla per «totale insussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dal reato di atti osceni in luogo pubblico».

Ora non nego che parlare di tette faccia aumentare gli accessi giornalieri a questo sito (quasi quanto pubblicarne una foto), ma io, che voglio un pubblico di qualità :-),parlo di questa storia semplicemente perché… non finisce qui. La ragazza ingiustamente accusata, infatti, decide di denunciare  per diffamazione la signora che viene condannata ad un anno di carcere (ovviamente pena sospesa) e a pagare 25.000 euro a titolo di risarcimento, sia pure in sede stragiudiziale.

La morale di questa storia si adatta a tanti episodi  che succedono quotidianamente. Nonostante una sempre più diffusa omertà di fronte a situazioni criminogene, dovuta ovviamente al timore di ripercussioni da parte di malviventi o potenti (a volte è la stessa cosa), si tende invece a denunciare, a qualunque tipo di autorità, qualunque cazzata che non sia di proprio gradimento. Si denunciano gli spazzini, gli autisti dei tram, i letturini del gas, i vigili urbani; si denunciano le discoteche, i centri sociali, i comportamenti anticlericali, le puttane per strada, le ragazze con le tette al vento, qualunque cosa generi in noi invidia o pruriti. Questa sentenza oggi ci ricorda che gli atteggiamenti illiberali, qualche volta, possono costare 25.000 euro e non è male che sia così.